Sicilfiat fu una trovata di Mimì Lacavera, lo storico fondatore-presidente di Sicindustria, l’associazione degli imprenditori siciliani. Una crasi tra Fiat, che alla fine degli anni Settanta nel Mezzogiorno era sinonimo di solidità e garanzia di posto fisso, e Sicindustria, la creatura associativa di Lacavera, a lungo motore di tutto quello che succedeva a Palermo. Era il 1967 e la Fiat progettava lo sbarco in Sicilia, a Termini Imerese, avvenuto poi nel 1970 con il primo stabilimento. La Montagna-fabbrica andava da Maometto-operaio dopo gli anni del boom economico e del percorso inverso con le mitologiche valige di cartone.
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Con la benedizione della Regione Sicilia, presente nell’azionariato di Sicilfiat con il 40% delle quote, e un finanziamento per la costruzione dello stabilimento di Termini a sugellare un’operazione politico-sociale oltre che industriale. La storia della Fiat a Termini Imerese è stata una parabola. La fase ascendente è durata fino alla metà degli anni Ottanta, quando gli occupati erano oltre tremila, oltre ai mille dell’indotto. La Fiat, che aveva acquisito la totalità delle azioni nel 1977, considerava Termini uno degli avamposti della sua produzione in Italia. Lo stabilimento aveva indici di produttività d’eccellenza, ma un difetto strutturale: la produzione monoprodotto. Da Termini sono usciti modelli fondamentali per la gamma Fiat: la Cinquecento e la 126, la Panda (tuttora prodotta altrove, rimane il modello di auto più venduto in Italia), la Y10 e la Tipo. Modelli però esposti a ogni refolo di crisi del settore.
Negli Anni Novanta, quelli della crisi dell’auto e dell’avvento dei giapponesi sui mercati, la parabola è entrata nella fase discendente. Gli addetti sono calati a 1.134 e, dopo il Duemila, sotto i mille. L’indotto si è via via assottigliato. La cura Marchionne, con la selezione degli stabilimenti per modelli e produttività, ha messo la pietra tombale alla parabola iniziata con Sicilfiat e conclusasi, ironia della sorte, con un discorso dell’amministratore delegato a Detroit. A Termini Marchionne riconosceva l’onere delle armi di stabilimento modello in alcune fasi della sua storia ma ne decretava la chiusura senza appello. Il 31 dicembre 2011 lo stabilimento venne definitivamente chiuso con un’appendice di ammortizzatori sociali per i dipendenti.
In quel momento inizia l’era delle ipotesi di riconversione con relativi salvataggi dei posti di lavoro. Molti nomi e chiacchiere, dalla molisana DR Motor della famiglia Di Risio a fantomaci gruppi cinesi fino a Blutec, la società del gruppo Metec di Rivoli che nel 2015 firma l’accordo di programma con la regia di Invitalia per la produzione di auto elettriche e ibride. Quattro anni di trattative trasferite ai tavoli di Roma, al Mise. Il finanziamento di 21 milioni di euro, l’accordo con Poste italiane per la produzione del veicolo triruote per la consegna dei pacchi. Tutti tasselli che facevano pensare a un epilogo diverso da quello di oggi con l’arresto dei vertici di Blutec e l’ennesimo ritorno alla casella iniziale del Monopoli di Termini Imerese.
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