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Chat, messaggi e gruppi chiusi: per i brand la nuova tentazione del dark social

«Non vogliamo limitarci alle conversazioni sui social, siamo stanchi di combattere con gli algoritmi e non vogliamo più pagare per apparire visibili nel feed. Vogliamo che la dimensione social venga rimessa nelle mani della nostra comunità». La nota diramata martedì dal colosso inglese di cosmetici naturali Lush rimbalza – guarda un po’ – sui social di mezzo mondo, rilanciata dalle testate internazionali e persino dalla BBC. L’azienda ha deciso di chiudere i profili inglesi su Facebook, Twitter e Instagram. Parallelamente ha annunciato una rivoluzione nella relazione con la community: più conversazioni in live chat sul sito web con i consumatori, target prevalentemente femminile e alto-spendente incline all’acquisto di prodotti naturali e con un’attenzione all’ambiente. Decisione coraggiosa: Lush in Inghilterra conta oltre 200mila follower su Twitter e quasi 570mila su Instagram, mentre la pagina Facebook veleggia sui 423mila fan.

Scendere dalla giostra dei social. O restarci, scommettendo però su nuovi canali, nuovi linguaggi, nuove dinamiche di interazione. Esattamente un anno fa la scelta di abbandonare queste frequentate piazze – scelta controcorrente e bizzarra, così l’ha definita l’Independent – è stata fatta dalla catena di birrerie Wetherspoon, ricavi per 1,7 miliardi di sterline. «Andiamo contro la convinzione comune secondo la quale queste piattaforme sarebbero una componente vitale per un’impresa di successo. Non credo che chiudere questi canali inciderà in alcun modo sul nostro business», ha commentato il fondatore Tim Martin, confermando il mantenimento del sito internet, dell’app e del magazine cartaceo. E suscitando una serie di perplessità. «Nell'era in cui le marche competono per attenzione e simpatia sui social, questo brand ha fatto l’impensabile: abbandonare i social», ha scritto Rachel Thompson su Mashable. Dall’Inghilterra all’Italia. A febbraio 2019 Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno annunciato una marcia indietro: niente più campagne pubblicitarie social, niente più influencer su Instagram. «In un mondo sempre più globalizzato esprimere la nostra unicità è diventato ancora più importante. Mentre tutti sono sugli smartphone, compriamo spazio sulla carta stampata», hanno dichiarato a Vogue.

Commercio conversazionale

Battere nuovi sentieri nella relazione col cliente. Arrivando ad un rapporto uno-ad-uno incentrato su ascolto ed esperienze memorabili. D’altronde le app di messaggistica stanno cambiando la comunicazione dei brand con i clienti. Un trend emergente segnalato dall’Harvard Business Review: «Questa è l’era del commercio conversazionale. La messaggistica offre un dialogo continuo tra il cliente e la marca», ha sottolineato Gadi Benmark di McKinsey.

«Oggi le persone sono attive su molti canali social contemporaneamente, scegliendo di volta in volta quello migliore per relazionarsi. WhatsApp o Facebook Messenger sono sempre più spesso la scelta preferita per condividere contenuti con le proprie connessioni. In molti casi la relazione all’interno di piccoli gruppi è preferita alla condivisione aperta su profili e bacheche. In una cerchia più ristretta è più facile sviluppare un senso di empatia», afferma Stefano Maggi, co-fondatore e Ceo di We Are Social, agenzia con un team di oltre 180 specialisti in Italia e presente nel mondo con un network di 13 uffici. Così la relazione approda su piattaforme più intime, personali, segmentate. E anche il linguaggio si modifica, preferendo un approccio più caldo, empatico, individuale. «I brand stanno interpretando questo cambiamento evolvendo le proprie strategie editoriali: oltre alle stories, ai post e alle interazioni pubbliche, che rimangono pilastri delle strategie di comunicazione, stanno sviluppando nuove tipologie di produzione creativa. Si tratta di contenuti social pensati per condivisione privata. È importante che il tono di voce e il linguaggio utilizzato siano compatibili con il modo di esprimersi delle nicchie a cui la marca desidera rivolgersi».

Il boom del “dark social”

Dai contenuti pubblici agli spazi privati, protetti, ristretti. Le scelte dei consumatori virano verso tribù a numero chiuso. «Ma attenzione. I canali social continueranno ad essere rilevanti. Piuttosto si assisterà all’adozione di canali aggiuntivi, che si basano su una logica più privata», dice Maggi. In Italia proprio We Are Social ha curato la campagna Ikea sulle “vittime” del fashion. «Abbiamo puntato sul racconto di situazioni familiari in cui una persona si riempie la casa di abiti, invitando a condividere su Facebook Messenger le “ingiustizie di spazio”», precisa Maggi. Intanto i brand nel mondo sperimentano: la multinazionale statunitense di servizi finanziari Wells Fargo ha disegnato un chatbot su Messenger per rispondere ai messaggi degli utenti sul conto in banca. E ci sono anche esperienze social che riportano su app proprietarie: EasyJet ha lanciato Look&Book, una nuova funzione che consente di prenotare un volo attraverso la scansione di uno screenshot di Instagram. Ma il lato “dark”, ovvero nascosto, implica che le conversazioni sfuggano al monitoraggio del brand. E in un marketing sempre più data-driven, questo elemento disorienta.

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