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Marchi storici, nessuna sanzione per chi compra e poi delocalizza

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Marchi storici, nessuna sanzione per chi compra e poi delocalizza

Doveva essere il muro di cinta per evitare un nuovo “caso Pernigotti”. Il firewall contro l’acquisizione a fini di rapina («prendo il marchio e scappo») di quello che resta (in mani italiane) dei marchi storici del made in Italy è diventato un recinto.

Si impegna l’investitore che vuole delocalizzare (anche solo in un’altra provincia italiana) a motivare le proprie scelte e il ministero a mettere in campo risorse per evitare la desertificazione di un territorio. Ma nessun commissariamento, nessuna sanzione punitiva. Si aiutano start up e Pmi a brevettare e a tutelarsi di più sui mercati esteri. Ma esce fortemente ridimensionato il capitolo “Tutela del Made in Italy” (articoli 31 e 32) contenuto nel Dl Crescita approvato dal Consiglio dei Ministri del 23 aprile.

Cosa prevede
Innanzitutto, è prevista la nascita di un “registro dei marchi storici” presso l’Ufficio Italiano brevetti e marchi al ministero dello Sviluppo economico per i brand registrati (o di cui sia possibile dimostrare l’esistenza) da almeno 50 anni. Se la proprietà pianifica la chiusura dello stabilimento, con relativo licenziamento collettivo, deve notificare al ministero per lo sviluppo economico (Mise) le ragioni e le azioni per trovare un nuovo acquirente. In sua assenza, si potrà ricorrere a una parte dei “Fondi speciali” del Mise per operazioni di rinconversione industriale. Che si restringono dai 100 milioni inzialmente ipotizzati a 30 milioni.

Non solo. Nasce il contrassegno “made in Italy” concesso dallo Stato, come garanzia di autenticità per il consumatore finale. L’obiettivo è garantire l’autenticità contro il fenomeno dell’Italian Sounding (l’evocazione di falsi prodotti italiani). Ma siccome non si possono porre ulteriori adempimenti sugli operatori italiani, anche rispetto ai competitors Ue, il simbolo grafico sarà facoltativo (quindi su richiesta) r valido solo per i mercati extra Ue. Sarebbe inserito in un contrassegno («tag») antifalsificazione che è al contempo una “carta-valori”, con il quale si assicurerebbe al consumatore finale che il bene è originalmente ed effettivamente fatto in Italia. Facoltativo, ma con richiesta e pagamento delle carte valori al Poligrafico dello Stato.

Si inserisce il divieto di registrare marchi che riproducono nomi di stati e altri enti territoriali, segni riconducibili a forze armate e forze dell’ordine o marchi lesivi dell'immagine o della reputazione dell’Italia, come “mafia” o “camorra”. Ma siccome la norma ha “giurisdizione” solo in Italia, non lo si potrà impedire in Cina, in Usa, in Brasile o anche solo in Germania.

Infine, si incentivano l’uso di marchi collettivi e di certificazione privati sui mercati esteri e un voucher ad hoc per favorire la brevettazione delle invenzioni da parte delle startup innovative. Infine, si apre alla possibilità, per i titolari di una domanda internazionale di brevetto che designi anche l’Italia, di avvalersi della procedura di esame presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi.

Le acquisizioni in Italia
La prima acquisizione – a colpire l’immaginario collettivo – fu, nel’99, il passaggio dei gelati Algida a Unilever. Poi è stato un crescendo. Colpa l’assenza di grandi gruppi nazionali e, dunque, di capitali disponibili. La Lvmh di Bernard Arnault ha in portafoglio Bulgari, Fendi, Emilio Pucci, Acqua di Parma, ma anche Loro Piana e la pasticceria Cova. Alla rivale Kering: Gucci, Bottega Veneta e Brioni. Alla francese Lactalis è andata la galassia Parmalat, Galbani, Invernizzi e Locatelli, Orzo Bimbo è svizzero, gli oli Sasso, Carapelli, Bertolli, della spagnola Sos. Buitoni e Perugina, sono Nestlè (come Antica gelateria del Corso). Così come Lamborghini e Giugiaro sono Volkswagen.

Il nostro shopping all’estero
Ma al netto dei clichè, è sbagliato pensare che le imprese italiane siano solo “prede”. Meno di un mese fa Ferrero ha acquisito i dolci e gli snack di Kellogg’s, dopo aver già fatto incetta oltreoceano di Fannie May, Ferrara Candy Company e dell’ex business dolciario Usa di Nestlè.

Negli anni scorsi, si ricordano PartnerRe comprata da Exor, Grand Marnier da Campari o il Carte Noire di Lavazza, la Nhco di Chiesi Farmaceutici. E poi la meccanica. Il gruppo Epta che fa shopping negli Usa o il gruppo Prysmian che mette le mani sulla statunitense General Cable.

Dal 2000 al 2017 (secondo Dealogic) sono state oltre 150 le imprese spagnole acquisite da competitors italiani. Il problema è che le nostre truppe sono sparute e sproporzionate rispetto all’estero che compra il Made in Italy.

Secondo la banca dati Zephyr di Bureau Van Dijk, nel solo 2018, l’Italia ha portato a termine 147 operazioni di acquisizione per un totale investito di 17,4 miliardi di euro. Le aziende italiane sono state, invece, oggetto di 830 operazioni, per un valore di 46,6 miliardi. Tutta la nostra potenza di fuoco, quando siamo noi a comprare all’estero, vale quanto le acquisizioni fatte a casa nostra dalla sola Francia.

IL MADE IN ITALY PASSATO IN MANI STRANIERE

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