In un sistema formativo in cui il 65% dei bambini è destinato a un lavoro che all’inizio della carriera scolastica ancora non esiste e in cui le scuole e le università faticano a fornire conoscenze e competenze al passo coi tempi, le “soft skills” si rivelano sempre più cruciali nella ricerca del primo impiego. L’ultima conferma giunge da un recente rapporto della Commissione Ue sul progetto Erasmus+. Dove sono gli stessi partecipanti a giudicare il programma europeo di scambio per universitari (e non solo) una valida “palestra” di vita prima ancora che di studio. E anche di lavoro, se è vero che quasi l’80% dei laureati in possesso di un’esperienza all’estero trova un posto entro tre mesi.
Questo è solo uno - e probabilmente il più significativo - dei tanti numeri contenuti nelle 354 pagine dello “Studio di impatto sul programma Erasmus+ per l’alta formazione”. Nel ricordare che sono circa 2 milioni gli studenti e i dipendenti delle università che hanno partecipato ai progetti di scambio tra il 2014 e il 2018, il paper utilizza le circa 77mila risposte ricevute fino all’aprile scorso per fare un bilancio dell’intero programma. Anche in vista della decisione definitiva del nuovo Parlamento Ue sul suo rifinanziamento, che dovrebbe triplicare fino a 42 miliardi il budget per il prossimo settennio 2021-2027 così da portare a 12 milioni i partecipanti totali.
Soffermandoci in questa sede sugli effetti per i laureati e tralasciando quelli sugli staff e sulle istituzioni accademiche, il primo dato che balza all’occhio è il 72% del campione che attribuisce a Erasmus+ il merito di aver aumentato le proprie chance occupazionali. Una quota che se restringiamo l’analisi al Sud Europa - e dunque anche all’Italia - sale addirittura al 74 per cento. Ne deriva un effetto-sprint sui tempi medi che intercorrono tra la laurea e la prima occupazione: meno di tre mesi nel 79% dei casi (più un altro 10% che ci impiega invece tra 3 e 6 mesi) contro il 75% che serve invece ai laureati “non mobili”.
Il contesto più generale vede la mobilità internazionale trasformarsi in un acceleratore di competenze. Innanzitutto tecniche nei singoli ambiti di studio. Ma anche inter-personali e interculturali. I “reduci” di Erasmus+ si percepiscono migliorati in una vasta gamma di soft skills. Si parte da quelle digitali (che il 51% degli intervistati giudica progredite) e imprenditoriali (69%); si passa dal problem solving (76%), dal pensiero critico (79%) e dalle lingue straniere (88%) e si arriva al terzetto che guida la classifica dei miglioramenti dichiarati: capacità relazionali, spirito di adattamento e conoscenza del paese ospitante, ex aequo al 91 per cento.
PER SAPERNE DI PIÙ / DOSSIER ELEZIONI EUROPEE 2019
L’internazionalizzazione assicurata dal programma Erasmus+ spesso prosegue anche dopo gli studi. Tant’è che la fetta di laureati impiegati in un Paese diverso da quello di origine aumenta di anno in anno. Dal 26% del 2015 si è passati infatti al 28% del biennio 2016-2017. Lungo un asse che vede i cittadini del Sud ed Est Europa dirigersi tendenzialmente verso l’Ovest o il Nord, in un’osmosi che alla lunga diventa anche culturale. Come testimonia quel 35% che, una volta rientrato, lo fa con un’identità comunitaria più forte. Un fenomeno da non sottovalutare. Specialmente da qui in avanti.
© Riproduzione riservata