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Sono le logiche difensive a spingere le operazioni di M&A in Giappone

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appunti da tokyo

Sono le logiche difensive a spingere le operazioni di M&A in Giappone

TOKYO – Il rapporto tra M&A e «crisis management» è andato sotto i riflettori nella Corporate Japan. Le ultime statistiche hanno evidenziato un ennesimo record per le operazioni di fusione e acquisizione: la novità è che quest’anno il principale “driver” di questa tendenza non è stato la proiezione strategica verso l’estero, ma proprio il «crisis management». La più delicata delle decisioni aziendali – quelle di cedere o meno asset (anche strategici, anche i più redditizi) – è stata dettata a più riprese da situazioni eccezionali che si sono verificate per lo più a causa dell’emergere di scandali, a loro volta legati a carenze evidenti nella governance.

Nei primi cinque mesi del 2016 le acquisizioni annunciate che hanno coinvolto società niponiche sono balzate del 62% a un valore equivalente a 55,4 miliardi di dollari, il massimo in un decennio. In prima fila è stata Toshiba, che ha dovuto cedere numerose attività dopo lo scandalo dei bilanci truccati per vari anni: la vendita a Canon per circa 6 miliardi di dollari nel settore medicale è stata l’equivalente del separarsi dal gioiello della corona. Decisione strategica tremenda – accompagnata da altre cessioni di più basso profilo - che evidenzia quanto la crisi alla Toshiba sia stata drammatica.

E certo Mitsubishi Motors non avrebbe concordato - almeno non così in fretta – di trovare in Nissan il suo nuovo primo azionista con il 34% se non fosse incappata nell’infortunio dei test truccati sull’efficienza dei motori.

Nel «crisis management» le opzioni a disposizione dei top executive si restringono a quesiti che mai avrebbero voluto affrontare: cedere asset non strategici e poco redditizi (ma sapendo di spuntare prezzi inadeguati) o vendere le attività migliori per massimizzare il prezzo? Scegliere o no un partner che mette a rischio l’indipendenza aziendale? O gettare la spugna e rinunciare del tutto alla propria indipendenza, come ha fatto Sharp vendendosi ai taiwanesi di Foxconn?

Vari analisti sottolineano il forte incremento degli accordi di M&A finalizzati a rispondere a emergenze aziendali: un trend che potrebbe confermarsi nel prossimo futuro, specialmente nei settori che stanno vivendo una più intensa concorrenza su scala globale o che devono fronteggiare le conseguenze di scandali.

Il futuro di Takata, ad esempio, non è chiaro, anche se la società produttrice di airbag potenzialmente difettosi (con conseguenti richiami in officina di molti milioni di autoveicoli) sta facendo di tutto per cercare di mantenersi autonoma. La stessa Toshiba potrebbe essere costretta a vendere un’altra divisione. Nissan Motor, probabilmente per finanziare l’acquisto della quota in Mitsubishi Motors, ha deciso di mettere in vendita la partecipazione in Calsonic Kansei.

Per molti anni l’M&A giapponese è apparso soprattutto “offensivo”, con grandi acquisizioni di società estere. Ora appare più la conseguenza di una combinazione tra decisioni strategiche di tipo aggressivo e scelte di management defensive. Nel vendere asset o quote di capitale, la scelta delle tempistiche oltre che delle singole attività (le migliori o le peggiori) è sempre fondamentale. Il problema è che quando tempi e modi sono dettati dall’emergenza si rischiano gravi errori.

“Line Corp andrà in Borsa a metà luglio a Tokyo e a New York con un valore di 5,5 miliardi di dollari: due anni fa la valutazione era di dieci miliardi”

 

Ma non sempre è così e il confine tra baldanza e calcolata prudenza , a volte, non è chiarissimo. Prendiamo il caso di quella che si profila come la maggiore Ipo giapponese di quest’anno, quella di Line Corp che andrà in Borsa a metà luglio a Tokyo e a New York. Il management della società di messaggistica app (con il suo azionista Naver) ha deciso di cedere al mercato quasi un quinto del capitale per finanziare un’ulteriore espansione sui mercati internazionali. Ma ha tardato di un paio d’anni a farlo rispetto all’ipotesi iniziale: ora il gruppo verrà valutato intorno a 5,5 miliardi di dollari. Non male per una azienda nata 5 anni fa, ma molto meno dei 10 miliardi di dollari di cui si era parlato nel 2014, prima che gli investitori diventassero meno entusiasti sulle Ipo tecnologiche e prima che altri gruppi rivali accelerassero le loro strategie.

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