Concedere aumenti salariali? Per i top manager è una decisione delicata, che in genere si tende a evitare appena possibile. Molto dipende dalla forza contrattuale dei dipendenti, che si esprime principalmente attraverso il sindacato (a livello di impresa o nazionale). In Giappone la situazione è paradossale: i sindacati sono deboli e timorosi nelle loro richieste. Ma i top manager giapponesi hanno un interlocutore forte che esige da loro la concessione di significativi aumenti di stipendio: il premier Shinzo Abe. Si sta infatti profilando un tiro alla fune tra il governo e la business community sui salari.
Sia l’esecutivo, sia la Banca del Giappone ritengono infatti essenziale per il rilancio dell’economia una spinta ai consumi e alle aspettative di inflazione: cosa poco realizzabile senza un aumento del potere di acquisto delle famiglie. Nel sistema sono tornate sgradite pressioni deflattive, tanto che la stessa banca centrale di recente ha rivisto al ribasso le sue proiezioni sui prezzi al consumo “core” dell’anno fiscale in corso a -0,1%. Una vera sconfitta, dopo quasi 4 anni di politiche monetarie ultra-espansive. Il governatore della banca centrale, Haruhiko Kuroda, ha suggerito che imprese e sindacati nella tornata annuale di negoziati basino le trattative su presupposto di una inflazione al 2% (il target ufficiale della BoJ). La crescita annuale dei salari, invece, viaggia da tempo non oltre lo 0,5 per cento. Le trattative di solito producono un compromesso anticipato gia' entro fine novembre, anche se poi il risultato è formalizzato nella primavera successiva. Le imprese si stanno orientando a concedere sono ritocchi marginali, ma sentono le pressioni governative.
Durante una riunione del Council on Economic and Fiscal Policy a fine settembre, il ministro delle Finanze Taro Aso ha sottolineato che negli ultimi tre anni i “retained earnings” delle imprese sono aumentati di 73.400 miliardi di yen (714 miliardi di dollari) a un totale di ben 380mila miliardi di yen (di cui 220mila miliardi in disponibilita' liquide). Lo stesso Aso ha fatto notare che la percentuale del labor income – il rapporto tra salari e valore aggiunto – è scesa in tre anni dal 70% circa al 67,8%.
Sintetizzando, il governo dice: con le politiche dell’Abenomics che hanno indebolito lo yen e sostenuto la Borsa e i profitti aziendali (anche con tagli alla corporate tax) le imprese hanno conseguito utili record o vicini al record. Però tendono a tesaurizzare l’eccesso di disponibilità finanziarie anziché tentare di immetterle nel circuito dell’economia. Così non va. Il messaggio, dunque, è: se non volete fare nuovi investimenti, almeno date qualcosina dei soldi che tenete fermi ai lavoratori, in modo da favorire un recupero dei consumi. Vari analisti, però, aspettano il governo alla prova di una reale volontà di forzare la questione.
L’unico vero strumento che potrebbe fiaccare la resistenza dei manager aziendali e delle loro organizzazioni di categoria è la minaccia di tassare l’eccesso di disponibilità liquide delle imprese. Anche sedere su una montagna di cash, insomma, può causare problemi con i politici al potere. Che diventano “sindacalisti”, anche se sono di destra. E dicono ai manager: o fate meglio il vostro mestiere, che è quello di trovare occasioni di investimento per far crescere il vostro business operativo, oppure se state a tesaurizzare i profitti che vi aiutiamo ad accumulare ci fate perdere la pazienza.
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