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Arrivano i robot, ma le relazioni con gli altri restano fondamentali

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L'Analisi|lavoro

Arrivano i robot, ma le relazioni con gli altri restano fondamentali

Negli ultimi anni è di gran moda parlare di robot che sostituiscono il lavoro. Abbondano gli approfondimenti, le statistiche, le proposte di economisti, politici e manager (la più celebre quella di Bill Gates sulla tassazione del lavoro “rubato” dai robot). I numeri della rivoluzione tecnologica del lavoro ci dicono chiaramente che i lavori di pura «esecuzione di compiti ripetitivi» possono essere programmati ed affidati ad una macchina: incassare un assegno, riclassificare un bilancio, ordinare merci in un magazzino, persino redigere un testo giornalistico o un atto notarile.

Non parliamo necessariamente della scomparsa di alcuni mestieri. Parliamo più spesso e meno tragicamente della scomparsa di una dimensione, di un aspetto di questi mestieri. Il bancario non fa più operazioni allo sportello, ma si dedica alla consulenza, il magazziniere abbandona il muletto e si dedica alla gestione degli ordini, il notaio affida ad un software la compilazione degli atti e si dedica ad ascoltare meglio i propri clienti, il commesso di Decathlon abbandona la cassa (automatizzata) per dispensare consigli tra gli scaffali.

Sta qui la cifra del cambiamento epocale nel mondo del lavoro: il lavoro è sempre meno esecuzione di compiti meccanici e ripetitivi e sempre più relazione con gli altri, clienti, collaboratori, colleghi, fornitori. Meno esecuzione più relazione. I lavori ad alto contenuto esecutivo diventano sempre più precari e malpagati. I lavori ad alto contenuto relazionale sempre più preziosi e remunerati. In un mondo così, per capirsi, è molto più utile per un ragazzo che vuole “assaggiare” il mondo del lavoro fare il venditore porta a porta (autonomia, creatività e soprattutto centralità della dimensione relazionale) piuttosto che lavorare in un McDonald’s (mansioni irregimentate e relazione “povera” con i clienti). La stessa dinamica si evidenzia all'interno delle professioni ad alto contenuto intellettuale. La differenza tra due avvocati, due manager, due medici, nel livellamento della competizione, e fatte salve le dovute eccezioni, sta sempre di più nelle competenze relazionali.

Viva le competenze relazionali dunque. Ma proprio qui, nel mondo del lavoro italiano, si apre un enorme problema di natura culturale. Cosa significa infatti «competenze relazionali»? Se lo domandassimo ad un amministratore delegato o ad uno studente al primo anno di Università riceveremmo risposte molto simili: «Essere empatici, piacere agli altri, saper ascoltare, saperci fare con le persone». Risposte esatte, ma che non centrano ancora il cuore della questione: le competenze relazionali servono a influenzare gli altri, orientarli, guidarli, persuaderli. E qui arriva il problema culturale. Nella nostra cultura infatti questi concetti vengono associati inesorabilmente all’idea di manipolazione e quindi alla malizia e al raggiro. Persuadere gli altri diventa quindi l’attività del televenditore di pentole, del demagogo, di quello che «indora la pillola», o dello “squalo” che è capace di «vendere il ghiaccio agli eschimesi».

Non c’è solo una scarsa considerazione etica della persuasione. C’è un pregiudizio intellettuale: chi si occupa professionalmente di “persuasione” è considerato un “marchettaro”, un “piazzista”, o nel migliore dei casi «un abile comunicatore». Il lavoro di qualità intellettuale, dicono i saccenti, è un lavoro «di contenuto, non di vendita». È facile capire quanto questi pregiudizi etici e intellettuali danneggino il nostro sistema produttivo. Abbiamo venditori che non sanno vendere, manager incapaci di comunicare con i loro collaboratori, medici che non sanno orientare il comportamento dei pazienti, dipendenti pubblici che fanno infuriare i cittadini.

Eppure persuadere non è una brutta parola. Etimologicamente significa addolcire, abbellire. È ciò che facciamo tutti i giorni, spesso con le persone che più amiamo, spesso per finalità lodevolissime. Offriamo a chi sta intorno a noi nuovi punti di vista, li aiutiamo a considerare le cose da nuove prospettive, ci concediamo il lusso di poter dire tutto, anche le verità più spiacevoli, quelle che i «cattivi persuasori» preferiscono nascondere.

La verità è che nel mondo del lavoro che mette al centro le competenze relazionali la comunicazione persuasiva è una competenza che si dovrebbe cominciare ad apprendere dai banchi di scuola. L’abbiamo fatto per secoli, forse senza accorgercene, studiando la retorica, che nasce nella Magna Grecia, come strumento di discussione democratica. Eppure noi, figli della cultura classica, nel linguaggio comune consideriamo la parola retorica una parolaccia, e associamo il concetto di retorica meccanicamente alla «cattiva retorica», quella di chi intorta il popolo ingenuo per fini deplorevoli. Così paradossalmente oggi per studiare la buona comunicazione persuasiva un ragazzo italiano deve ritrovarsi in un corso di formazione manageriale, tenuto da qualche guru americano che racconta studi americani o nord europei.

Siamo la patria della cultura classica e della retorica eppure i nostri studenti devono uscire dall’Italia per scoprire che nelle scuole e nelle università di mezzo mondo gli studenti si esercitano sistematicamente a prendere una posizione e a difendere una tesi, parlando davanti ai loro colleghi, esattamente come facevano gli studenti di 2000 anni fa, con la sola differenza del supporto di un microfono o di una presentazione in Powerpoint. Alla fine non è solo una questione di lavoro, di competenze, di professionalità. Abbiamo tutti interesse a diventare dei bravi persuasori, per vincere la nostra timidezza in alcuni casi, per convincere nostra madre a smettere di fumare in altri, soprattutto per non farci fregare dagli istrioni e dai furbacchioni, in casa, in ufficio o nella cabina elettorale.

* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring

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