Se un ex impiegato o un ex manager novantenne tornasse nella sua vecchia azienda a testare una giornata di lavoro tipo dei suoi colleghi del terzo millennio resterebbe sbalordito dal numero e dalla frequenza delle riunioni: «strategiche, operative, di allineamento, di feedback, di kick off, di brain storming» e chi più ne ha più ne metta. Se dovessimo dare una rappresentazione fotografica di cosa sia oggi il lavoro d’ufficio ad un bambino delle elementari finiremmo certamente col dire: «scrivo molte mail e nel tempo che mi resta partecipo a delle riunioni».
Le persone vagano per i corridoi alla ricerca disperata di una saletta libera e consumano il proprio tempo a incastrare le proprie agende per questo o quel meeting. È difficile trovare un termometro che lo certifichi, ma la sensazione diffusa, sia nelle percezione dei manager che in quella dei collaboratori, è che le organizzazioni aziendali dei nostri tempi soffrano di “riunionite”: troppe riunioni, troppo lunghe, con troppe persone coinvolte.
Per non cadere in facili generalizzazioni è necessario distinguere fisiologia e patologia del fenomeno. Oggi partecipiamo tutti a molte più riunioni di quanto si facesse anche solo 30 anni fa perché le aziende vivono in un contesto di cambiamento continuo e vorticoso. Pensiamo per esempio alla grigia quotidianità del giovane bancario degli anni 50, protagonista del bellissimo libro «La morte in banca» di Giuseppe Pontiggia: ho le mie procedure, ho le mie mansioni, qualcuno mi assegna delle rassicuranti pratiche da evadere. Stop. Pensiamo invece ad un giovane bancario nel 2017: riunione per l’aggiornamento del prodotto, riunione per l’aggiornamento della normativa, riunione per la revisione degli obiettivi, riunione per la condivisione del nuovo sistema informativo, riunione per la formazione sul nuovo modello commerciale e così via.
Per stare sul mercato le aziende hanno bisogno della massima efficienza. Per avere la massima efficienza sono costrette a mettere in discussione e a rivedere ossessivamente le scelte strategiche e i modelli organizzativi. Tutto diventa liquido e precario. Ed ogni novità genera cascate di riunioni. Non solo. Per avere la massima efficienza le aziende devono muovere all’unisono le proprie articolazioni interne: la direzione commerciale deve collaborare perfettamente con la direzione IT, che deve collaborare perfettamente con la direzione operations, che deve collaborare perfettamente con la direzione finanza e così via. Di più, tutte queste direzioni devono interfacciarsi sempre più frequentemente con clienti e fornitori esterni.
Questo processo di integrazione continua varca i confini delle aziende. Lo ritroviamo per esempio nel dialogo tra i reparti degli ospedali, tra le facoltà nelle Università, e più in generale tra gli organi e dipartimenti che compongono la Pubblica amministrazione. La conseguenza anche qui è che la necessità di allineamento continuo tra strutture «distinte, ma non separate» genera riunioni su riunioni.
Non è finita. Per essere efficiente al 100% l'organizzazione deve preoccuparsi che sia efficiente al 100% la performance di ogni singolo lavoratore. Ed ecco qui l’esigenza di portare a tutti, a qualsiasi livello, stimoli continui, nuovi obiettivi, nuove procedure, nuovi ruoli. È in questo contesto che si è affermata la cultura del feedback: siccome tutti devono migliorare la propria performance allora tutti dobbiamo darci dei feedback, dirci cosa funziona e cosa non funziona, cosa e come migliorare. Ecco quindi che se il giovane bancario de «La morte in banca» rinascesse nel 2017 si troverebbe ad essere invitato ogni venerdì dal suo capo a partecipare ad una riunione di feedback, in cui darsi le pagelle e scambiarsi le opinioni su quanto accaduto in ufficio.
Nel sistema in cui ci muoviamo insomma riunirsi è fisiologico. Se però tutti nei corridoi sbuffano e imprecano mentre rotolano tra una riunione e un’altra è perché alla fisiologia si è aggiunta la patologia. È molto difficile misurare la “riunionite” con riscontri oggettivi. L’impressione diffusa è però che ci siano dei meccanismi «molto umani» per cui le riunioni finiscono con il diventare troppe, troppo frequenti e troppo numerose.
È possibile individuarne almeno 6:
1) Non riesco e/o non voglio prendere una decisione o assumermi una responsabilità e allora convoco una riunione.
2) Non ho una soluzione ad un problema (magari perché non sono più abituato a studiare e ricercare in solitudine preso come sono a partecipare a riunioni) e allora convoco una riunione nella speranza che per opera di forze soprannaturali la soluzione si materializzi.
3) Voglio bloccare o allontanare qualcosa che si sta materializzando pericolosamente e allora convoco una riunione per provare a «intorbidare le acque».
4) Non riesco a gestire un conflitto personale con un collega e allora convoco una riunione per “diluire” e aggirare il conflitto personale, limitandomi ad inviare al mio “nemico” segnali in codice.
5) Non voglio indispettire nessuno e mancare di rispetto a nessuno. Quindi nel dubbio convoco anche il collega Tizio, e a questo punto se ho convocato Tizio devo dirlo anche a Caio, del resto anche lui l’ultima volta mi ha convocato alla sua riunione, anche se non ho capito bene il perché. Nel dubbio meglio abbondare.
6) Sento di non aver sufficientemente affermato la mia autorevolezza e quindi convoco una riunione in modo da procurarmi una ulteriore opportunità “teatrale” per dimostrare che il capo sono io.
Alla fine comunque, al di là delle umane fragilità dei manager «dalla convocazione facile», se le organizzazioni soffrono di riunionite è soprattutto perché le riunioni troppo spesso vengono gestite male, o più semplicemente non vengono gestite, nel senso di «guidate verso un obiettivo in tempi utili». Le persone avvertono la sensazione dello spreco di tempo e senza accorgersene, nel turbinio del «meeting perenne», perdono un giorno alla volta quella preziosissima capacità di lavorare al massimo della concentrazione e in solitudine, studiando, approfondendo, ricercando.
* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring
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