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Partecipare a una riunione è utile solo se si apporta valore

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Partecipare a una riunione è utile solo se si apporta valore

Nella mitologia degli aneddoti legati a Steve Jobs, fonte inesauribile negli ultimi anni di pillole di formazione manageriale, spicca il racconto del suo stile di conduzione delle riunioni. Pare che il fondatore di Apple si dedicasse ad applicare il suo credo nel principio «keep it simple, less is more», provocando i partecipanti alle riunioni del top management: «Qual è il contributo che puoi portare a questa riunione? Solo questo? Beh, se è così, ti chiedo di tornare al tuo lavoro, adesso possiamo fare a meno di te, grazie lo stesso». Immaginiamo per un attimo di essere quel manager. Raccoglie le sue cose, si alza e abbandona il meeting nel silenzio e nell’imbarazzo generale.

È facile intuire la frustrazione personale di chi viene liquidato in modo così lapidario. A nessuno piace essere espulso, a prescindere dai motivi e dal contesto in cui l’espulsione matura. Per questo siamo portati a valutare molto negativamente un approccio manageriale di questo tipo, considerandolo «poco umano». Tuttavia se parliamo in termini di pura efficienza e di pura funzionalità l’aneddoto di Steve Jobs descrive una scelta vincente: comunico ai miei collaboratori che partecipare a una riunione non è una questione di potere, di status, o di empatia tra colleghi.

Partecipare a una riunione significa creare del valore. Se non ci sono le condizioni per creare del valore allora è molto più utile impiegare il proprio prezioso tempo in altro modo. È facile essere d’accordo, molto più difficile trasformare la teoria in comportamenti, soprattutto se lavori nel contesto di una cultura organizzativa per cui la riunione, essendo la quintessenza della vita sociale in ufficio, ha le stesse regole delle feste tra amici: 1) più siamo meglio è; 2) non invitare significa mancare di rispetto; 3) non aderire ad un invito significa snobbare.

In ambienti di questo tipo si sviluppa un meccanismo perverso per cui partecipare a riunioni significa sostanzialmente essere “riconosciuti” dagli altri. L’invito a una riunione equivale alla legittimazione del proprio ruolo e del proprio valore. E siccome nessuno vuole negare ruolo e valore a nessuno, eccoci tutti a rotolare nei corridoi tra un meeting e un altro. Quando ci lamentiamo per questo eccesso di riunioni chiediamoci come ci sentiremmo se trovassimo il lunedì mattina l'agenda settimanale desolatamente priva di convocazioni. Presumibilmente ci sentiremmo meno cercati, meno importanti. Non è un caso che una delle confessioni comuni di chi racconta il mobbing subìto in ufficio sia: «Hanno addirittura smesso di chiamarmi alle riunioni».

Abbiamo già raccontato perché le organizzazioni del terzo millennio soffrono di “riunionite”: troppe riunioni, troppo lunghe e troppo frequenti. Abbiamo sottolineato come la riunionite bruci tempo, deresponsabilizzi, crei alibi, disturbi la concentrazione e lo sforzo individuale. Un autentico killer dell'efficienza e del benessere delle persone sul lavoro. Dalla consapevolezza bisogna passare all’azione. Fortunatamente infatti non è necessario essere il fondatore di Apple per provare a combattere la “riunionite”. Del resto la cultura organizzativa non è che la somma delle scelte quotidiane dei singoli. Ciascun manager, a tutti i livelli, può dare nel suo piccolo un contributo concreto. Ecco qualche suggerimento pratico:
1) Adottiamo una regola ferrea quanto semplice: se abbiamo dubbi sull'opportunità di invitare alla prossima riunione il collega Tizio, non invitiamolo, sic et simpliciter. Ci sarà sempre tempo per rimediare nel caso la scelta di riveli sbagliata.
2) Definiamo il costo economico della riunione che stiamo per convocare: moltiplichiamo il valore dello stipendio orario di ciascun partecipante per la durata del meeting. Scopriremo che partecipiamo tutte le settimane a riunioni di dubbia utilità che costano all’azienda decine di migliaia di euro ciascuna.
3)Diamo l’esempio con una riunione “alla Steve Jobs”: chiudiamo la porta e cominciamo un minuto prima dell'orario di convocazione. Interrompiamo la riunione un minuto prima dell’orario di chiusura previsto, a prescindere dal risultato conseguito. Può darsi che inizialmente questo atteggiamento generi frustrazione, ma il messaggio arriverà forte e chiaro: il tempo di tutti è una risorsa scarsa e preziosa. Tutti lo devono usare con rispetto.

4)Chiediamoci quale sia l’obiettivo della riunione che stiamo per convocare: Vogliamo condividere delle informazioni? Vogliamo creare in gruppo delle soluzioni? Vogliamo prendere in gruppo delle decisioni? Le riunioni “omnibus” (quelle in cui si condivide, si crea e si decide) sono per definizione ingestibili. Ciascuno dei tre obiettivi descritti merita una riunione ad hoc, mirata e chirurgica. Soprattutto se ci chiedessimo sempre a quale dei 3 bisogni organizzativi risponde il meeting (condividere oppure creare, oppure decidere) scopriremmo che spesso e volentieri l’incontro da 2 ore può chiudersi in 1 ora, o che addirittura non c’è un vero motivo per strappare i colleghi alla loro attività individuale.
5) Mettiamo in discussione per un mese o anche solo per una settimana la nostra «solita riunione». Annulliamola e proviamo a sostituirla con tanti piccoli incontri “one to one” con ciascuno dei nostri colleghi. Osserviamo cosa cambia, cosa funziona meglio, cosa funziona peggio. Potremmo scoprire che è indispensabile, potremmo scoprire che è superflua, potremmo capire come organizzarla in modo diverso.
6) Nel management ciò che non si può misurare non esiste. Oggi con le agende digitali è molto facile stabilire quanto tempo trascorriamo in riunione. Se vogliamo combattere la “riunionite” possiamo definire dei piani di ottimizzazione e riduzione, misurabili e monitorabili, degli autentici budget di «risparmio meeting», da verificare mese dopo mese.

* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring

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