Formazione e specializzazione degli addetti sono le strade maestre per affrontare la rivoluzione digitale e saltare l’ostacolo di uno skill gap che rischia di penalizzare troppo il percorso di innovazione delle aziende? È sicuramente opinione diffusa che la vera sfida risieda nella “trasformazione” delle competenze e nella valorizzazione di professioni nuove e a più stretto contatto con le tecnologie. In Italia, lo dicono i dati dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del Lavoro, il saldo delle posizioni informatiche nell’ultimo quadriennio è positivo per 68mila unità ed è in forte aumento la domanda delle figure 4.0, a cominciare dagli analisti e dagli sviluppatori software.
Non è quindi arrivato a sorpresa il piano nazionale annunciato lo scorso luglio dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, per aumentare i livelli di occupazione nell’ambito dei programmi di Industria 4.0. La necessità di nuove competenze si affianca a quella di inserire nelle organizzazioni giovani talenti e di attuare importanti processi di riconversione e riqualificazione del personale a rischio di obsolescenza professionale. Di questi temi abbiamo parlato con Simone Bonannini, Vice President Southern Europe e delle arre Cee e Mea di Interoute, uno dei principali operatori di telecomunicazione attivi in Italia.
Si parla sempre più spesso di trasformazione digitale ma non tutte le aziende italiane si dimostrano pronte ad affrontarla: quali figure del management vanno coinvolte? E come?
Faccio una premessa: la tecnologia permette di portare dentro le imprese i sensori che produrranno quantità di dati spaventose da analizzare, elaborare e interpretare per definire nuovi modelli e nuovi processi, ed eseguirli. In questo senso tutte le figure del management devono essere coinvolte, a cominciare ovviamente dai Chief information officer e dai responsabili It e subito dopo dall’amministratore delegato, perché è questa figura che sempre e comunque prenderà le decisioni circa la strada che l’azienda dovrà seguire. Le aziende non sono organizzazioni democratiche, vivono di modelli piramidali e gerarchici.
Quindi è il capo azienda che deve farsi carico, più di altri, del cambiamento in chiave digitale?
A mio avviso la digital transformation darà ancora più importanza a Ceo e amministratori delegati. Saranno queste figure a dover dare gli imput strategici ai Cio, ai direttori delle operation e agli Hr manager, coloro che dovranno occuparsi delle competenze.
Una delle cause del digital gap italiano è proprio la mancanza di competenze: dove vede le criticità più evidenti?
Sinceramente non credo che nelle aziende italiane vi sia questo evidente difetto di competenze rispetto ad altri Paesi come Germania, Regno Unito e Francia. Spesso troviamo eccellenze anche migliori, che lavorano su tecnologie avanzate come l’intelligenza artificiale. Il vero gap è stato quello della lingua, oggi i nostri nativi digitali sono più preparati e la differenza è ancora meno marcata. Per contro è anche vero che nelle grandi aziende, che dovrebbero essere i soggetti abilitanti dell’innovazione, spesso sono ancora dominanti figure “anziane” legate a vecchi modelli. Credo che lo svecchiamento del top management sia un passaggio dovuto per affrontare la trasformazione digitale.
Chi dovrebbe allora farsi carico di investire in formazione e ricerca di nuovi talenti? Gli AD? Gli Hr manager? I Cio?
Serve innanzitutto un rapporto più stretto fra aziende e università, finalizzato a definire le corrette indicazioni sulle professionalità che servono. Ritengo sia l’unico modo per creare un circolo virtuoso in materie di competenze, anche con il supporto del governo. Su questo fronte l’Italia ha un gap vero.
Colpa, per così dire, degli Hr manager?
I responsabili delle risorse umane devono fare più i manager e meno i “ragionieri”, guardando ai prossimi cinque anni e non solo al bilancio di fine anno.
La complessità del ruolo del Cio è aumentata o diminuita, rispetto al recente passato? E perché?
È un ruolo diverso, molto diverso. Ieri si occupava a 360 gradi di tutto: comprava l’hardware, gestiva lo sviluppo di applicazioni internamente e altro ancora. Oggi deve analizzare l’offerta e scegliere la soluzione più idonea per l’azienda partendo dalla centralità dei dati e delle informazioni. Ha cambiato mestiere, insomma, non è più un “muratore” che costruisce la casa ma l’architetto che la progetta.
Il Piano Industria 4.0, a vostro avviso, può essere un’occasione per un change management che metta a fattor comune tecnologie, processi, organizzazione, nuove professioni, modelli di business…?
Il piano è sicuramente uno stimolo per crescere a tutti i livelli, il change management passa dal mettere l’azienda nelle condizioni di lavorare meglio gestendo tutta l’architettura organizzativa e tutta l’infrastruttura che fa viaggiare veloce i dati. Se guardiamo ai Cio italiani, per esempio, una nostra recente indagine ci dice che sono molto più consapevoli del problema infrastrutturale rispetto ai colleghi esteri e più attivi nel cercare di superarlo. Il salto culturale necessario per il cambiamento passa anche da qui, dalla volontà di innovare e superare vecchi schemi.
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