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Educare alla complessità per avere manager migliori

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sbagliando si impara

Educare alla complessità per avere manager migliori

Il manager che opera oggi in azienda è immerso in contesti incerti, non lineari, imprevedibili. Il principio meccanico di reazione (a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria) perde di efficacia nel momento in cui l’agire quotidiano impatta su un ambiente interconnesso dove, citando Edgar Morin, «l’azione entra in un universo di interazioni e, alla fine, è l’ambiente che se ne impossessa nel senso che essa può divenire contraria all’intenzione iniziale». Oggi cominciamo a riconoscere i limiti di un’istruzione che si è focalizzata sull’acquisizione di nozioni invece di favorire la formazione di un pensiero complesso. Nelle parole di Zygmunt Bauman, «Negli ultimi trent’anni sono state prodotte nel mondo più informazioni che nei cinquemila anni precedenti, mentre un solo numero domenicale del New York Times contiene più informazioni di quante ne poteva consumare un erudito del Settecento in tutta la sua vita».

Considerare oggi la formazione come trasmissione di conoscenze fini a sé stesse sembra un anacronismo, eppure i comuni sistemi di valutazione si limitano a rilevare le nozioni acquisite in un dato periodo restituendo un feedback quasi sempre su scala numerica con sporadiche annotazioni. Pescando nei ricordi adolescenziali, ritroviamo le sensazioni di angoscia prima di un’interrogazione, l’ansia di memorizzare tutto il possibile per arrivare almeno al 6. Siamo stati educati a pensare in termini di domanda/risposta, giusto/sbagliato, promosso/bocciato. La ricerca di criteri oggettivi nella valutazione di uno studente (e, di fatto, di una persona), ha portato alla diffusione di test a risposta multipla che garantiscono oggettività e velocità nella restituzione, ma riflettono una visione limitata della persona esaminata. Lo spazio dedicato all’organizzazione sistemica delle conoscenze, allo stimolo di un pensiero critico, si riduce alla buona volontà di docenti illuminati.

Ognuno di noi, scavando nella sua storia personale, può ritrovare queste due tipologie di insegnanti: il docente che, nel riconsegnare un compito andato male, lasciava solo il voto scritto in rosso e quello che, invece, riusciva a trovare un momento per chiederti cosa fosse successo. Il primo restituisce un numero, l’altro suggerisce domande e prova a capire il processo cognitivo, le motivazioni, i fattori che hanno condizionato una performance.

La complessità richiede educazione

Vi fidereste di un medico che prescriva a tutti, indistintamente, la stessa cura per dei sintomi influenzali senza farvi prima nessun tipo di domanda? Come un organismo è composto da strutture interconnesse che creano fitte reti interdipendenti, così la società è un ambiente complesso in cui l’uomo agisce, nello stesso tempo condizionato dal contesto. Per riuscire a orientarsi in un sistema di questo tipo non basta dare la risposta giusta a priori, quella che ripetiamo a memoria come una tabellina. In modalità pilota automatico molto spesso non si ottiene altro che un’ipersoluzione, ovvero, nella definizione di Paul Watzlawick, «un modo di affrontare i problemi che, pur essendo fondato sulle migliori intenzioni, finisce sempre con l’avere effetti controproducenti».

Manifestiamo un pensiero complesso quando riusciamo a immaginare una varietà di possibili futuri e di opzioni d’azione attraverso la continua interazione con l’ambiente esterno. Agire in un sistema complesso significa provare a capire i nodi della rete, le interconnessioni tra gli agenti, utilizzare un pensiero ridondante che analizzi cioè la stessa situazione da punti di vista differenti e opposti, che sia capace di farsi le domande giuste.

L’educazione, la comprensione dell’umano, la gestione di un team sono lavori complessi. Maria Montessori ci ha insegnato che il bambino è il padre dell’uomo, un uomo che non è stato educato ad assumere categorie di pensiero specifiche che facilitino il percorso di lettura del contesto e orientino il suo agire: la capacità di entrare in azione (sapersi muovere rapidamente in funzione di un obiettivo); la capacità di saper leggere il contesto in cui ci si trova (ovvero le forze che agiscono al di fuori di noi e le dinamiche relazionali tra le persone); lo sviluppo di una visione sistemica che faciliti la previsione delle retroazioni, delle ricadute sul contesto e sulle persone delle nostre azioni; infine la capacità di generare un contesto relazionale orientato al raggiungimento del risultato comune.

In conclusione l’adozione di lenti per la complessità è di vitale importanza in un percorso formativo come nella gestione di un team in azienda o per leggere diversamente le proprie relazioni in famiglia. In altre parole, ovunque si abbia a che fare con un eco-sistema di relazioni.

* Consultant Newton Management Innovation Spa

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