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Tre domande chiave per misurare la propria «capacità di…

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sbagliando si impara

Tre domande chiave per misurare la propria «capacità di inclusione»

Sono sicuro che a ognuno di noi sia capitato, almeno una volta, di partecipare a una riunione in cui, senza volere (o con fine, ma miope, consapevolezza) il conduttore o qualche ospite di spicco abbiano agito in maniera esclusiva, ovvero senza tenere in considerazione non solo le differenze, ma anche le conseguenze inattese, spesso negative, delle proprie azioni e parole. Per azione esclusiva intendo, ad esempio, un’attività che, pur svolta con le migliori intenzioni, finisce sempre con il produrre, in un arco temporale più lungo, azioni opposte a quelle ipotizzate, generando una retro-azione inizialmente non prevista che ha effetti controproducenti rispetto all’obiettivo immaginato.

L’inclusione può essere vista come interesse del singolo manager o come interesse dell’intera azienda. Il manager che ha un atteggiamento inclusivo è una persona che sa esercitare la propria leadership utilizzando una visione sistemica e complessa della realtà in cui è inserito; un manager che conosce in profondità i propri collaboratori e si pone continue domande rispetto all'ambiente esterno che lo circonda. Ogni giorno ascoltiamo frasi che fanno riferimento a una dimensione culturale esclusiva, ad esempio: «Mi piace: è uno di noi!», oppure «Escludo di avere pregiudizi o di valutare le persone in base a futili ragioni» o ancora «Il problema sono gli altri». Queste frasi rappresentano forme pregiudiziali più vicine al concetto di esclusione che di inclusione.

In altre occasioni, incontriamo manager che, di fronte a una posizione differente dalla propria, sanno accogliere le diversità con un atteggiamento diverso, usando frasi come questa: «È interessante, proprio perché non è uno di noi», o ancora «Sono consapevole del fatto che tutti noi siamo sempre influenzati da possibili stereotipi e pregiudizi» o, per finire, «Lavoriamo su di noi e non sugli altri». Siamo di fronte a una cultura che cerca di utilizzare le differenze per crescere e raggiungere più velocemente risultati comuni.

Inclusione, questa sconosciuta

Se la dimensione individuale rimane alla base dei comportamenti esclusivi o inclusivi del manager, l’opportunità dell’inclusione può essere colta anche ad un livello superiore, come elemento strategico per l’intera organizzazione.

Riprendendo l’interessante ricerca di Julie O'Mara del Diversity Collegium, attraverso la quale sono state poste le basi per un Global D&I benchmarch, è possibile ricavare una vera check list per distinguere tra un programma di inclusione (basato più su un atteggiamento reputazionale e comunicativo) ed una strategia di inclusione. La check list prende in considerazione tutti gli ambiti su cui normalmente un’organizzazione si confronta per costruire la propria visione strategica: dalla centralità del cliente al reclutamento, dalla formazione ai sistemi incentivanti e di avanzamento di carriera, dall’engagement e comunicazione al welfare, con lo scopo di indossare nuove lenti di osservazione per ogni ambito strategico.

La capacità dell’organizzazione di orientarsi verso una strategia di global inclusion prevede la capacità di porsi domande utili per assumere una prospettiva differente. Proviamo quindi ad immaginare come potrebbe cambiare la strategia aziendale di molte aziende se il board avesse risposto, in sede di elaborazione della strategia, ad alcune di queste domande:

1) «Funzioni, posizioni e aree mercato ricevono obiettivi annuali di inclusione in relazione al loro contesto?».

2) «Le persone dell’organizzazione e i vertici affermano, con i loro comportamenti, che l’inclusione è la cosa più giusta da fare?».

3) «Quali diversità sono esplicitamente considerate nella nostra strategia: età, salute, stato di famiglia, abilità, formazione, stile di leadership, anzianità aziendale, livello gerarchico, storia personale, ruolo aziendale, lingue parlate, nazionalità, etnia, religione, genere, orientamento sessuale, identità ed espressione in genere, o altre?».

Come afferma Andrea Notarnicola in Global Inclusion (Franco Angeli, 2014), «L’inclusione e il diversity management non sono più intese come questioni di pari opportunità, come un nice-to-have per signore della comunicazione», devono invece diventare strumenti indispensabili su cui fondare la responsabilità individuale e collettiva per sostenere la propria capacità competitiva.

* Partner di Newton Management Innovation

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