Le competenze, nel corso del tempo, si perdono. E quindi occorre aggiornarle. I focus group aziendali ad alta disomogeneità sono uno strumento importante per capire meglio lo stato dell’arte della propria popolazione lavorativa. E ancora. Il cambiamento non fa paura a nessuno? Non è vero. Fa paura soprattutto ai manager, a coloro che dovrebbero essere i primi driver del fenomeno. E l’assenza di sintonia fra management e addetti è assolutamente un rischio da evitare. Pensieri in libertà, ma strettamente collegati fra di loro, che Marco Grazioli, presidente di The European House Ambrosetti, ha condiviso con una folta platea di manager per presentare i risultati dello studio «Age at Work, 8 stili di vita al lavoro».
Quali sono gli impatti che le demografie aziendali esercitano sull’organizzazione? Essere consapevoli di come le diverse modalità di approccio al lavoro pesano sulla cultura aziendale, questa la premessa, è fondamentale per rendere più efficace l’effetto di interventi gestionali sulle persone. Gli stili identificati nella ricerca, in tal senso, vedono «turisti delle opportunità», molto preparati (e sempre connessi) ma poco affettivi e lungimiranti, operare accanto ai «sognatori statici», fortemente identificati con il contesto sociale e culturale di appartenenza e tendenzialmente non propensi al cambiamento. Se gli «individualisti disincantati» sono in cerca di una realizzazione professionale e convinti del fatto che lavorare con diligenza sia una garanzia di carriera, per i «ricercatori di approdo» il lavoro è inteso come strumento per accedere ai piaceri della vita.
Si va quindi dai «conquistatori allo specchio», realizzati professionalmente e costantemente aggiornati sui trend e sulle innovazioni, agli «integrati preoccupati», figure legate alla tecnicalità dei mestieri e identificati con essa. Gli «eroi guerrieri», infine, hanno un elevato senso del dovere e della responsabilità, mentre i «martiri formali» sanno sopportare elevate frustrazioni della vita quotidiana senza particolari mire verso la realizzazione di sé stessi nel lavoro.
Cosa fare per non perdersi? Gestire al meglio gli estremi della curva (giovani e over 55), suggeriscono gli autori, rischia di lasciare in ombra un aspetto molto più importante, quello della convivenza tra le diverse fasce d'età. Persone di età diverse che condividono lo stesso luogo di lavoro possono essere, al contempo, una risorsa e un limite, in funzione di come si decide di affrontare la questione. E le ricerche che hanno misurato le performance di un team concordano tutte, non a caso, nell’affermare che i gruppi “misti” sono quelli che producono maggiori innovazioni e registrano maggiori risultati. I limiti e le criticità di un potenziale rapporto tra un ventiseienne e un sessantenne, questa la riflessione che emerge dall’indagine, possono quindi essere agevolmente assorbite, anche perché – convinzione di Grazioli – «la tecnologia aiuta drammaticamente le relazioni fra giovani e vecchi».
Il tema, se vogliamo, è una delle tante ripercussioni della sempre maggiore pervasività del digitale. Se le pratiche e le strategie di «Age management» sono entrate negli ultimi anni a pieno titolo nelle agende delle organizzazioni in tutto il mondo è perché la valorizzazione delle persone in funzione della loro età rappresenta, oggi, un asset fondamentale dell’azienda, chiamata per questo a comprendere in modo approfondito le dinamiche dell’appartenenza generazionale per una corretta definizione delle proprie politiche organizzative.
Oggi la popolazione lavorativa, così come la rappresenta anche lo studio di Ambrosetti, si divide in quattro grandi gruppi sulla base dell’età: Veterans (nati tra il 1922 e il 1942), Baby Boomers (fra il 1943 e il 1960), Xers (tra il 1961 e il 1981) e Millennials (o Y Generation, nati tra il 1982 e il 2004). In modo sintetico, e nell’ordine, queste le rispettive peculiarità: lavoratori affidabili e rispettosi delle autorità; hardworker ma spesso poco collaborativi e adattabili; individualisti/opportunisti perché considerano il lavoro come un’opportunità per avere una vita più agiata; apprezzati per le loro competenze digitali, ma con elevati costi aziendali a causa della loro tendenza a non rimanere per più di due anni nella stessa organizzazione.
Facile intuire, leggendo i profili di ogni singolo gruppo e tornando all’eterogeneità degli stili di vita, come il compito di chi gestisce le risorse umane in azienda (e del top management tutto) sia oggi più complicato rispetto al recente passato. Se c’è una regola base per non intraprendere azioni ad alto rischio di fallimento, questa si esprime con la necessità di ridurre la tendenza a stereotipare le persone sulla base di un’unica variabile, l’età per l’appunto (escludendo quella geografica e quella sociale), e attraverso suddivisioni rigide. Non si è tutti “ugualmente” Millennials, insomma: avere 26 anni in Giappone piuttosto che negli Stati Uniti o in India, suggerisce lo studio, è decisamente un’esperienza diversa, e a fare la differenza sono anche il livello di istruzione e il genere. Conoscere (bene) i propri addetti è dunque (molto) rilevante.
«Per fare scouting e per assemblare un team competitivo – ha sottolineato in proposito Grazioli - la tecnica Moneyball non sempre è la strada migliore, proprio perché è fondamentale la relazione personale. E non sempre il talento dei singoli è la carta vincente, perché è preferibile contare sul talento di tutta l’organizzazione».
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