«C’è un filo logico e la gente inciampa». Vi sarà capitato per strada di “inciampare” in questa citazione, riportata su un muro da qualche writer audace o magari sul web, leggendo il pezzo di un blogger. L’attribuzione è incerta ma il senso è intuibile: il rigore della logica, apparentemente confortante nei momenti di dubbio, si rivela talvolta fallace e inaffidabile. Non c’è niente di più rassicurante del principio di non contraddizione, ereditato dalla logica classica: «È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo». Eppure nelle aziende oggi questo granitico principio sembrerebbe essere messo in discussione.
Nell’era della complessità i problemi che le aziende affrontano sono caratterizzati da variabili (mercati, budget, clienti, authority, ecc) le cui interrelazioni sono sempre più instabili, non sempre note a priori, talvolta addirittura invisibili. Le persone che si trovano ad affrontare questi problemi, animate da un quasi istintivo spirito cartesiano, tenderanno ad applicarvi (in buona fede, beninteso!) approcci risolutori tipicamente lineari ovvero che si affidano ciecamente all’esperienza passata, oppure che mutuano strategie che funzionano in altri contesti ma non necessariamente altrove.
Facciamo un esempio concreto: le aziende in USA e UE nel 1955 tipicamente si impegnavano a raggiungere dai 4 ai 7 obiettivi di business. Oggi il numero è tra 25 e 40. Inoltre, mentre nel 1955 difficilmente quegli obiettivi erano in contraddizione tra di loro, oggi almeno la metà lo sono. Per rispondere a questa crescente complessità, le aziende hanno aumentato il numero delle procedure, dei livelli intermedi, delle strutture, degli organi di coordinamento, delle schede di valutazione e dei processi di approvazione. Più specificamente, il numero di questi strati di complicazione e burocrazia è aumentato ogni anno del 6,7%. Rispetto al 1955 l’indice di complicatezza è aumentato di 35 volte (BCG, Complexity Index).
Mettiamoci per un attimo nei panni dei collaboratori di quei manager all’interno di quel contesto. Plausibilmente vedremo il nostro responsabile poco e niente, in quanto sarà certamente molto preso da tutti quegli adempimenti burocratici (secondo Y. Morieaux i manager delle organizzazioni più complicate passano più del 40% del loro tempo a scrivere report e tra il 30 e il 60% in riunioni di coordinamento) e in quelle poche occasioni in cui si concederà a noi lo farà per dirci oggi “A” e probabilmente domani “non A”. Questo non perché sia animato da una strana forma di sadismo, ma perché la complessità odierna impone talvolta obiettivi in contrasto. Morale della favola, ovvero la conseguenza involontaria, ma senza dubbio molto rilevante, di questa condizione: noi collaboratori non comprenderemo il senso e il perché di queste indicazioni contradditorie (inciampando, nostro malgrado, nel filo logico). Riempiremo a modo nostro questa apparente mancanza di senso e finiremo con l’essere profondamente demotivati.
La motivazione delle persone nelle aziende pertanto non è necessariamente una specie di oscura magia (come il filmato che potete vedere in questa pagina sembrerebbe lasciar intendere) né tantomeno esclusivamente un processo emotivo-cognitivo che il buon manager dovrebbe sapere governare, attraverso leve come responsabilizzazione, autonomia, delega e fiducia. Ma anche, semplicemente, una condizione di presenza e aggiornamento costante di senso, significato, visione, direzione e scopo.
Karl E. Weick, già negli anni ’70, lo ha chiamato «sensemaking», definendolo come segue:
1) Gli individui sono costantemente investiti da un flusso di esperienza al quale cercano di dare ordine in termini di causa-effetto.
2) La realtà pertanto è ambigua in quanto ognuno le conferisce il “suo” senso.
3) Il sensemaking è che quel processo istitutivo che contribuisce a costruire quello che si percepisce.
Parafrasando, il sensemaking è il nostro modo di dare senso alla realtà, ma questo processo, in azienda, è messo a durissima prova da questa apparente schizofrenia di strategie, obiettivi e processi e l’esito tipico è la demotivazione. Riappropriarsi di tempi e spazi congrui per incontrare periodicamente i propri collaboratori per spiegare loro, «producendo senso» attraverso il dialogo, tutte le contraddizioni che potrebbero ravvisare non solo nella strategia dell’azienda ma anche nelle loro attività quotidiane, potrebbe essere efficace nel generare o aumentare la motivazione.
Aristotele ci aveva illuso con la sua promessa di eterna coerenza insita nel principio di non contraddizione. Quando qualcosa non ci torna: piuttosto che affidarci ciecamente alla logica, tentiamo la via del sensemaking, ovvero proviamo, con il dialogo e il confronto, a ricucire le spesso solo apparenti incoerenze.
* Consultant Newton Management Innovation Spa
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