Il tema delle competenze, in Italia, vive ancora di evidenti contraddizioni: tutti ne parlano, attori istituzionali ovviamente compresi, ma gli skill legati all’innovazione tecnologica presenti oggi nelle imprese, nelle pubbliche amministrazioni e nel mondo del lavoro in generale non abbondano di certo. Anzi. La percezione della trasformazione digitale come driver di sviluppo ormai ineludibile è ancora lontana dall’essere una priorità di tutti i soggetti che popolano l’ecosistema “produttivo” italiano. Non mancano iniziative che spingono sulla cultura digitale (vedi il progetto unitario portato avanti da AgId e Ministero dell’Istruzione in collaborazione con le principali associazioni dell’Information technology) quale leva di sviluppo imprescindibile per la competitività del Paese, ma è un dato di fatto che le aziende fatichino a trovare figure qualificate.
La domanda di nuovi professionisti Ict continua infatti a crescere e lo conferma proprio l’Osservatorio sulle competenze digitali avviato dalle varie Assinter, Aica, Anitec-Assinform, Assintel, Confidustria e Confcommercio. Le aziende, questo l’assunto dell’ultima edizione del rapporto, si stanno digitalizzando (e anche velocemente) e questo genera una forte richiesta sia di figure tecniche “tout court” sia di professionisti destinati ad aree come le risorse umane o il reparto finanziario.
Il problema, come ha ricordato ancora di recente Giancarlo Capitani, Presidente di NetConsulting cube, trova origine in una sostanziale sperequazione fra offerta e domanda: «Il numero di laureati o diplomati che escono ogni anno dal mondo della formazione pubblica, e quindi università e istituti tecnici superiori, non è sufficiente a soddisfare le esigenze delle aziende, che non riescono a reperire facilmente queste risorse e soprattutto non riescono a farlo a costi sostenibili».
I professionisti Ict richiesti nel triennio 2016-2018 sono, secondo le ultime stime, circa 85mila, di cui 65mila sono nuovi profili e circa 20mila lavoratori già dipendenti da ri-formare; dalle università escono invece ogni anno solo circa 8mila laureati che potrebbero soddisfare questa fame di nuove competenze. La portata dello skill gap, numeri alla mano, è facilmente intuibile ed è ancora più preoccupante se pensiamo che alle capacità di natura tecnologica devono essere affiancate le cosiddette “soft skill”, e quindi competenze di processo e di gestione. Come si risolve quindi il problema dentro le aziende?
In casa YouCo, impresa milanese che opera come provider di soluzioni digitali, hanno una visione della questione molto lineare. «Le professioni emergenti - ha spiegato Pierfrancesco Boccola, Hr Manager della società - sono sicuramente quelle legate al mondo delle app e del software mobile, dei Big Data e della security. Il processo di cambiamento culturale, visto da una società che fa tecnologia, è però complesso e per una questione di velocità: la progettazione e lo sviluppo di un prodotto corre e le persone, e non solo gli ingegneri e gli sviluppatori, hanno più difficoltà. Per questo abbiamo una crescente necessità di figure che metabolizzino in fretta nuovi modelli di lavoro, i principi dello smart working, le dinamiche della condivisione a distanza».
E non solo. Le fondamenta della trasformazione, secondo Boccola, sono proprio le soft skill, mentre un grande acceleratore è la propensione a portare in azienda i giovani e i nativi digitali, formarli dentro l’organizzazione attraverso una maggiore interazione nelle attività di mentoring e affidare loro progetti e responsabilità. «Imparare il digitale - dice convinto il manager di YouCo - deve essere una discontinuità rispetto a consuetudini acquisite».
In una grande organizzazione come Ferrovie dello Stato, invece, si affronta la questione mettendo al centro l’utente. «Parlare di competenze digitali senza legarle all’evoluzione del business, nel nostro caso quello della mobilità, è limitante: occorre ricondurre la discussione al concetto di riconfigurazione dell’offerta di servizi e soluzioni imposte dalle nuove tecnologie. È una sfida da affrontare partendo dal creare e gestire nuove esperienze d’uso», ha spiegato Luca Lanetta, Responsabile Sviluppo Organizzativo e Change Management del Gruppo. Serve, in concreto, decentrare le mansioni e maggiore trasversalità dei processi.
«In termini di skill, la vera differenza non sta nel trasferire know how tecnologico a tutti gli addetti operativi - ha ricordato ancora Lanetta - bensì nell’educare queste figure a un nuovo modo di lavorare, sfruttando i vantaggi degli strumenti digitali. La tecnologia rende trasparenti e più efficienti i processi di collaborazione. E la sfida decisiva è quella di costruire una piattaforma di cambiamento in grado di abilitare una mutazione organica delle competenze». In attesa che queste escano in quantità maggiore dalle università.
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