Una delle regole auree del mondo del lavoro del novecento prevedeva la netta separazione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. I dipendenti avevano una busta paga, un capo a coordinarli, dei tempi di lavoro e delle regole organizzative a cui attenersi. I lavoratori autonomi invece avevano un servizio da vendere, delle spese da scaricare, delle fatture da incassare e soprattutto la libertà di organizzare il proprio tempo. Un tempo il profilo classico della partita Iva era quello del libero professionista iscritto ad un albo professionale.
Le mille mutazioni tecnologiche economiche e organizzative che la nostra società ha sperimentato rendono oggi il confine tra lavoro autonomo e lavoro dipendente molto più labile. Oggi il mondo delle partite Iva annovera una miriade di nuovi lavori che sono difficilmente inquadrabili nella classificazione dipendente/autonomo. Pensiamo solo per citare un esempio al lavoro della sharing economy e alla figura paradigmatica dell’autista di Uber. A questo fenomeno ovviamente bisogna aggiungere le storture regolamentari del lavoro in Italia che incentivano gli imprenditori più “disinvolti” ad eludere i costi dell’assunzione e ad ingaggiare dei dipendenti con lo strumento contrattuale della partita Iva, una vera e propria ingiustizia.
Risultato: in Italia si calcola che ci siano poco meno di 4 milioni di partite Iva di persone fisiche: più di un milione le partite Iva delle professioni organizzate in ordini, più di 2 milioni quelle non organizzate in ordini. Le famigerate “false partite Iva” sono invece stimate in circa 600.000 unità. Gli esperti in diritto del lavoro e i legislatori hanno una sfida enorme davanti a loro, quella di mettere ordine in una giungla di rapporti contrattuali e tipologie di collaborazione ed evitare abusi.
Il problema delle partite Iva italiane non presenta però solo un aspetto giuridico. Presenta anche un aspetto culturale molto rilevante. La mentalità con cui guardiamo alla partita Iva infatti influenza le scelte di carriera, e spesso conduce a cattive decisioni. Sempre più spesso il primo lavoro della vita, quello con cui si entra nel mondo dei grandi, e l’ultimo, quello con cui ci si rimette in gioco a fine carriera sono targati partita Iva.
L’abuso di questo strumento in Italia ha esasperato i pregiudizi negativi: chi lavora con la partita Iva è ostaggio di un profittatore, svolge un lavoro di serie B, mal pagato, non protetto, costoso in termini amministrativi e previdenziali. Nella mia esperienza ho sentito centinaia di volte frasi come «Non ho avuto nessuna opportunità vera, solo lavori con la partita Iva, e ovviamente neanche sono andato al colloquio»; «Appena mi hanno parlato di partita Iva ho rinunciato». In molti casi queste posizioni sono pienamente opportune e condivisibili. In molti altri però questo tipo di atteggiamento preclude percorsi di carriera che potrebbero rivelarsi invece molti interessanti. Bisogna imparare a distinguere caso per caso perché non tutte le opportunità di lavoro regolate da partita Iva sono abusi e non sempre lavorare con la partita Iva significa avere una prospettiva precaria.
Ecco 4 situazioni in cui vale la pena valutare con attenzione un’opportunità di lavoro con la partita IVA.
1) Si può valutare una collaborazione con questa modalità se la proposta arriva da una realtà imprenditoriale piccola e in fase di lancio che ci chiede di sviluppare un progetto in autonomia. In queste circostanze è quasi come se fossimo chiamati a compartecipare al rischio d’impresa. Se crediamo nel progetto e se riteniamo di poter imparare qualcosa di importante per il nostro percorso la partita Iva non deve rappresentare un ostacolo insormontabile. Soprattutto se il datore di lavoro (che formalmente sarebbe il nostro cliente), al di là della formula contrattuale, ci dimostra di voler comunque investire su di noi nel lungo termine assicurandoci formazione e/o benefit.
2) Si può valutare una collaborazione con la partita Iva se il ruolo ha una natura eminentemente commerciale e se l’organizzazione del lavoro comporta o addirittura richiede autonomia e spirito di intraprendenza. Se si tratta di vendere prodotti o servizi in un call center con dei turni e un capo che ti intima cosa fare e con quali scadenze non siamo nel campo della partita Iva. In molti altri casi però le opportunità commerciali prevedono un rapporto tra datore di lavoro e lavoratore che in effetti è un rapporto tra due “imprese” che si danno poche semplici regole di ingaggio e che si forniscono reciprocamente dei servizi. In questi casi la partita Iva è il vestito giusto per la collaborazione. Molto spesso le persone si trincerano dietro un «non potevo accettare di lavorare per loro con la partita Iva», quando invece il tema vero è «non mi piace un lavoro di natura commerciale».
3) Si può valutare una collaborazione con la partita Iva se le regole d’ingaggio con il datore di lavoro sono tali per cui il datore di lavoro accetta di comportarsi come se fosse il nostro cliente numero 1. Si preoccupa del nostro prodotto finito e non di come lo produciamo, non ci controlla, ci lascia il tempo di cercare un cliente numero 2, o addirittura ci aiuta lui in prima persona a sviluppare opportunità di business. Da questo punto di vista la decisione di accettare o meno una collaborazione con la partita iva dipende non tanto dal comportamento di chi ci ingaggia, ma dal nostro approccio: tornando a casa diremo «ho trovato lavoro» oppure «ho trovato il mio primo cliente?». Tornando a casa diremo «speriamo che poi mi prolunghino il contratto» oppure «a quale altra azienda posso presentare i miei servizi?». Se il datore di lavoro ci chiede di collaborare con la partita Iva allora sta a noi comportarci nei suoi confronti da partita Iva. I datori di lavoro più illuminati apprezzeranno il nostro approccio imprenditoriale. I meno illuminati si tireranno indietro rivelandoci immediatamente la scarsa qualità della loro proposta.
4) Si può valutare una collaborazione con la partita IVA quando desideriamo maturare un’esperienza “ponte”, quando cioè abbiamo bisogno di una soluzione temporanea che ci permetta di uscire dalla disoccupazione o di maturare nuove esperienze in un settore professionale in cui vediamo prospettive interessanti, ma rispetto al quale non abbiamo al momento sufficienti esperienze. La prospettiva qui si rovescia. Non è l’imprenditore ad approfittare di noi offrendoci un lavoro di serie B, ma siamo noi a sfruttare l’appetibilità di un contratto che alleggerisce le responsabilità dell’imprenditore per «salire sul suo taxi», consapevoli che l’esperienza che matureremo ci servirà a muoverci appena possibile verso altri lidi.
* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring
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