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Le responsabilità verso l’azienda «analgesico» per il mal…

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veritÀ scomode

Le responsabilità verso l’azienda «analgesico» per il mal di lavoro

Parliamo spessissimo di responsabilità dell’azienda nei confronti del lavoratore: retribuzione, benefit, rispetto della vita privata, riconoscimento dei risultati, welfare, formazione, aiuto logistico, attenzione allo stress e al bisogno di nuovi stimoli. La letteratura manageriale degli ultimi anni è in un certo senso un compendio di buone azioni che il datore di lavoro deve realizzare per il benessere del lavoratore. Il datore di lavoro come il buon padre di famiglia: protettivo, generoso, empatico. E il figlio invece come si deve comportare? Fuor di metafora quali sono le responsabilità del lavoratore verso l’azienda e perché non se ne parla mai?

Probabilmente perché veniamo da un secolo in cui i rapporti di lavoro sono stati ideologizzati. Richiamare la responsabilità del lavoratore oggi significherebbe richiamare dei doveri e richiamare dei doveri significherebbe evocare in qualche modo quella sudditanza che le battaglie sociali del novecento sono riuscite faticosamente a eliminare. Tuttavia è bene ogni tanto ricordare che le responsabilità del lavoratore nei confronti del datore di lavoro esistono. Non sono solo quelle freddamente sviscerate nei contratti. Sono soprattutto responsabilità etiche.

Tenerlo a mente ci aiuta a dare una lettura più alta “di quello” che facciamo tutti i giorni. E ci aiuta a trovare una motivazione intrinseca più profonda “in quello” che facciamo tutti i giorni. Non si tratta semplicemente di belle parole o principi teorici. Avere contezza delle responsabilità che portiamo nei confronti di chi ci paga lo stipendio ci serve a gestire i continui mal di pancia della nostra quotidianità lavorativa. La professionalità è un analgesico, è un antidoto al «mal di lavoro».

Queste responsabilità del dipendente nei confronti dell’azienda si concretizzano nei piccoli eroismi della nostra vita lavorativa. Sono quei gesti anche banali che abbiamo visto fare ai nostri nonni e ai nostri genitori e che raccontano una meravigliosa etica del lavoro, che non è morta, ma che deve semplicemente trovare forme nuove. Ecco allora, senza paura di essere retorici, i 6 comandamenti del lavoratore perfettamente responsabile, quello che ci piacerebbe assumere se fossimo imprenditori:

1) Il dipendente responsabile va oltre il compitino, oltre il richiesto e il dovuto. Si preoccupa delle conseguenze che la sua mail, il suo report, la sua telefonata produrranno sulla soddisfazione dei clienti e sul conto economico.
2) Il dipendente responsabile tutte le mattine lascia la propria vita personale fuori dalla porta.
3) Il dipendente responsabile non trasmette ai colleghi la sua frustrazione.
4) Il dipendente responsabile tollera i momenti di “invisibilità”, tollera che ci siano momenti in cui non arrivano gratificazioni, aumenti di stipendio, pacche sulla spalla.
5) Il dipendente responsabile non giudica né i colleghi né i clienti.
6) Il dipendente responsabile è discreto e riservato.

Se questi sono i comandamenti del perfetto dipendente, allora forse li abbiamo violati e continueremo a violarli quotidianamente. Eppure è giusto che i comandamenti restino lì davanti ai nostri occhi, a dirci che un modello di professionalità esiste.

Se il nostro datore di lavoro ci imponesse i 6 comandamenti, li affiggesse alle pareti dell’ufficio come si faceva una volta nelle fabbriche e nelle parodie fantozziane si coprirebbe di ridicolo. Osservare i 6 comandamenti ha senso solo se lo facciamo per noi stessi. I 6 comandamenti sono una forma di espressione dell’amor proprio. È come se dicessimo: «Ricordati, caro datore di lavoro, che io lavoro formalmente per te, ma sostanzialmente io lavoro soprattutto per me. È per me che io voglio lavorare in modo impeccabile tutti i giorni. Oggi scelgo di mettere il mio cuore e il mio cervello a disposizione della tua impresa, e lo faccio alla grande col massimo della mia energia. Se sono qui è perché ci credo. Se domani smetterò di crederci mi comporterò da adulto, non da bimbo capriccioso e agirò di conseguenza».

I 6 comandamenti sono un richiamo alla bellezza di vivere la condizione di lavoratore dipendente da adulto e non da bambino. Spesso invece tutti noi finiamo con il comportarci da “dipendente”, nel senso etimologico di «dipendere da», di «non essere autonomo», di «aver bisogno di qualcuno più grande di te», concetti legati all’essere bambino per l’appunto: tenere il broncio, ubbidire sul momento per poi disubbidire di nascosto, frignare e borbottare, prendersela col papà (il capo, il datore di lavoro) «brutto e cattivo».

Oggi più che mai «comportarsi da adulto» sul posto di lavoro e osservare i 6 comandamenti è fondamentale per almeno quattro motivi:

1) Qualsiasi lavoratore dipendente è molto più “in vetrina” di quanto succedesse una volta. I nostri comportamenti e le nostre performance sono analizzati, valutati ed eventualmente premiati (o sanzionati) con molta più attenzione. Fantozzi e i suoi colleghi erano travet invisibili che potevano permettersi di far cadere la penna alle 16 e 59. Oggi Fantozzi sarebbe probabilmente disoccupato.

2) Il tema della reputazione nel mondo fluido e interconnesso in cui tutti possono sapere (quasi) tutto di tutti è sempre più delicato. Il tuo ex collega che si è appena messo in proprio e che un anno fa ti ha sentito parlar male del tuo capo potrebbe rinunciare a proporti un nuovo lavoro. Il selezionatore potrebbe scartarti perché ha intercettato un tuo sfogo polemico in un post su Linkedin. Il tuo amico potrebbe decidere di non ingaggiarti come consulente ricordandosi di quello che gli raccontavi del tuo lavoro quando eri dipendente.

3) Se la nostra carriera sarà molto più discontinua e frammentata di quanto accaduto ai nostri genitori, saremo chiamati sempre più spesso a prendere decisioni importanti: resto o cambio lavoro? Mi metto in proprio? Vado a lavorare per un concorrente? La differenza tra un bambino e un adulto sta nella capacità di decidere. Lavorare “da adulto”, nella consapevolezza delle nostre responsabilità nei confronti del datore di lavoro, ci allena a gestire in modo più razionale e meno emotivo le transizioni di carriera.

4) Nei nostri ambienti di lavoro sempre più stressanti e sempre più spinti alla produttività emerge chiaramente il fatto che se tu non rispetti i 6 comandamenti danneggi il tuo collega, che a sua volta sarà portato a non rispettare i 6 comandamenti, peggiorando ulteriormente le condizioni generali di lavoro e incentivando un ulteriore collega a non rispettare i 6 comandamenti. Un perfetto circolo vizioso in cui alla fine perdono tutti. Non è un caso che le persone che si lamentano di più del proprio lavoro siano spesso proprio quelle che si comportano in modo meno professionale. Soffrono la situazione lavorativa difficile in cui vivono anche se non si accorgono di aver contribuito a crearla.

In definitiva, probabilmente, vale davvero la pena stampare questi 6 comandamenti del dipendente responsabile e conservarli nel cassetto della nostra scrivania. Un richiamo che deve restare intimo e privatissimo a pretendere ogni giorno il massimo da noi stessi e dalla nostra fatica. La dignità del nostro lavoro dipende dalle regole, dipende dal comportamento di chi ci paga lo stipendio e dal comportamento dei nostri colleghi. Non dimentichiamoci però che la dignità del nostro lavoro dipende prima di tutto da noi stessi.

* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring

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