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Il tabù del licenziamento e i troppi errori commessi dai protagonisti

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il lavoro che cambia

Il tabù del licenziamento e i troppi errori commessi dai protagonisti

Nel mondo del lavoro liquido del terzo millennio resiste la mentalità del posto fisso. Uno degli ultimi tabù da sfatare è quello del licenziamento. Nella nostra cultura del lavoro il licenziamento resta il male assoluto: in una prospettiva sociale rappresenta il potere violento e cinico del capitalista. In una prospettiva individuale rappresenta l’onta del fallimento personale. Purtroppo come sappiamo competizione globale e rivoluzione tecnologica rendono ormai il licenziamento un evento fisiologico del percorso professionale delle persone. Nella prassi l’interruzione del rapporto di lavoro è fisiologia. Nella testa delle persone invece è ancora considerata patologia. Questa divergenza tra realtà e percezione non solo crea e consolida sentimenti di malessere sociale e di malessere personale, ma conduce tutti gli attori economici ad errori di valutazione e a cattive decisioni.

I lavoratori: quando viviamo il licenziamento come un lutto, una macchia, come qualcosa di cui dire «non avrei mai pensato potesse capitare a me» finiamo con il cadere in due trappole: la prima è quella della rimozione. Semplicemente non accettiamo quello che è accaduto e decidiamo di ingaggiare lunghe e dispendiosissime battaglie legali e sindacali, che diventano in molti casi una specie di nuova ragione di vita. Personalmente ho conosciuto molte persone che hanno investito enormi risorse fisiche, nervose e finanziarie alla ricerca di un riscatto. Si combatte contro il licenziamento mentre corrono i mesi, qualche volta gli anni e si perdono inesorabilmente energie e competenze per rilanciarsi.

La seconda trappola è quella “narrativa”. Il lavoratore mette il licenziamento al centro della propria narrazione personale durante i colloqui di lavoro, ma anche in contesti più informali e amichevoli: «Carissimo, prima di tutto ti devo spiegare perché ho perso il lavoro. Mi hanno fatto fuori, non è colpa mia, sono una vittima, è stata colpa del capo/del sistema/del mercato». Nella mia esperienza almeno la metà dei colloqui con persone che provengono da questa situazione diventano un monologo tra il rabbioso e il patetico, un autogol imperdonabile.

Gli imprenditori: quelli che vivono il licenziamento come evento patologico della propria esperienza rischiano di cadere in due trappole. La prima è una trappola “pseudoetica”: un imprenditore responsabile non licenzia mai. Fa l’impossibile per non doversi macchiare di questo misfatto. L’intenzione è nobilissima, anche se tutti sappiamo che così facendo l’imprenditore rischia di mettere a repentaglio lo stato di salute dell’azienda e di conseguenza di aumentare il numero di potenziali vittime. Inoltre trattenere oltre il dovuto un lavoratore che i conti aziendali non riescono a sostenere significa paradossalmente bloccarlo in una situazione compromessa e fargli perdere tempo preziosissimo per riqualificarsi, nell’illusione che la situazione si possa normalizzare.

La seconda trappola in cui cadono gli imprenditori è di segno opposto alla prima, ed è quella del giudizio sommario. In fase di selezione il racconto di un licenziamento diventa cinicamente un perverso indicatore di bassa qualità e affidabilità. È come se l’imprenditore pensasse: «Se proviene da un licenziamento in qualche modo sarà stata anche colpa sua. Non lo assumo».

Politici e sindacati: quelli che vivono i licenziamenti come un loro fallimento si comportano legittimamente come facevano nel novecento, difendono il lavoratore difendendo il posto di lavoro. Oggi purtroppo, invece, nel sistema economico in cui abbiamo scelto di collocarci difendere il posto di lavoro significa in molti casi paradossalmente danneggiare il lavoratore. Vengono tenute in piedi artificialmente situazioni aziendali di fatto irrecuperabili. I lavoratori vengono illusi per poi essere consegnati alla disoccupazione più anziani, più arrabbiati, meno disponibili e meno capaci di riqualificarsi. La grande differenza con le politiche del lavoro novecentesche sta tutta qui: oggi il lavoro “buono” è lavoro ad alta intensità di competenze. Non si passa dall’avvitare bulloni per «l’azienda x» all’avvitare bulloni per «l’azienda y». Per passare da un lavoro all’altro ci vuole tempo per la riqualificazione personale. Se tra un lavoro e un altro passa troppo tempo invecchio io e invecchiano le mie capacità di riqualificarmi. Quindi prima il sistema mi dà l’opportunità di entrare in un percorso di riqualificazione meglio è per me. È per questo motivo che i rapporti di lavoro compromessi andrebbero risolti radicalmente e in fretta. È nell’interesse del lavoratore.

Società di selezione/agenzie per il lavoro/società di outplacement: le società di consulenza nel loro modo di operare spesso tradiscono un atteggiamento “pietistico” nei confronti del lavoratore licenziato. In questo modo cadono nella trappola della “relazione di aiuto”. Il licenziato viene trattato come uno sventurato di cui prendersi cura, e di conseguenza finisce con il percepirsi come uno sventurato bisognoso di cure. Qualche mese fa un manager raccontandomi delle sue peripezie alla ricerca di una ricollocazione mi ha detto: «Sono pieno di consulenti che mi danno consigli, mi sento come una persona problematica seguita dagli assistenti sociali». La frase era intrisa di ironia, ma testimoniava un approccio che è tutto tranne che motivante e energizzante. Senza accorgersene i consulenti sono i primi a non credere nella capacità di riqualificarsi del loro interlocutore, e in questo modo perdono la capacità di valorizzarlo e di essere nei suoi confronti esigenti, rigorosi e schietti.

Avvocati specializzati in diritto del lavoro: negli ultimi anni in Italia nell’ambito del lavoro la normativa e la giurisprudenza hanno senz’altro recepito le importanti trasformazioni del mercato. Gli avvocati specializzati in diritto del lavoro sono i consiglieri più ascoltati del lavoratore nella fase in cui si profila l’interruzione del rapporto di lavoro. La trappola in cui cadono è quella di considerare unico interesse del lavoratore l’affermazione dei suoi diritti in qualche modo conculcati dal datore di lavoro. Per gli avvocati del lavoro questa può essere definita una trappola di miopia. Infatti l’interesse del lavoratore è molto più ampio e coincide con la libertà e velocità di ricollocazione. L’obiettivo non è semplicemente quello di imporsi nel contenzioso. Se mai è quello di imporsi nel contenzioso nel minor tempo possibile, preservando la propria reputazione nell’ambito professionale di riferimento.

Spesso il consulente legale suggerisce delle strategie di gestione della crisi del rapporto di lavoro che portano il lavoratore a dilazionare, ad essere poco trasparente, a compromettere le relazioni con colleghi e operatori del suo settore. Questo nel lungo termine può complicare enormemente la ricollocazione del lavoratore. Il mondo non finisce con la sentenza. La mattina dopo il lavoratore deve riqualificarsi e tornare sul mercato. Magari avrà dei soldi in tasca in più, ma se ha rovinato le relazioni nel suo ambiente professionale, se ha perso tempo, se è più arrabbiato e disilluso di prima, quei soldi si consumeranno in fretta.

* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring

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