A giugno chiudono le scuole. A luglio finiscono gli esami di maturità. In entrambi i mesi gli universitari hanno intense sessioni di esami. Tempo di bilanci e di valutazioni delle performance. Nelle scuole superiori siamo passati dai cartelloni appesi sulle vetrate antistanti gli ingressi ai registri elettronici; sono cambiati gli strumenti, non i colori della valutazione: il rosso è negativo (così come nei bilanci aziendali). Si tirano le somme di un trimestre, di un anno o di un ciclo di studi. Pacche sulle spalle, sorrisi, piccole punizioni o pianti disperati tra genitori e figli, già alle prese con l’organizzazione del periodo estivo. E settembre incombe.
Quest'anno mio figlio Pietro, la quinta elementare appena terminata, ha passato gli ultimi quattro mesi a prepararsi alla chiusura di un ciclo scolastico attraverso una lunghissima serie di prove. Un giorno sì e un giorno no, per tutto il secondo quadrimestre, un’interrogazione o una verifica. E, a seguire, l’attesa dei voti. Accompagnate, verifiche e attese, da una malcelata preoccupazione delle maestre di collezionare indicatori di performance (KPI si dice nelle aziende) e nel contempo prefigurare ai bambini un futuro in perenne competizione. Voti e valutazioni, un ottovolante pari (potenzialmente) all’andamento di certi titoli in Borsa. Su e giù. Siamo forse “titoli” anche noi? Suscettibili di quotazioni in salita o in discesa sul mercato scolastico (o aziendale), in relazione ai voti e ai risultati conseguiti in un certo periodo. A partire da che età? Undici anni? Perché non prima, allora?
Gherardo Colombo, ex magistrato, oggi iperattivo e ricercatissimo educatore, appassionato divulgatore della nostra Costituzione e promotore di un pensiero e di una cultura fondata su un diverso modo di concepire il rapporto tra persone e regole, dove le regole sono intese «non come ciò che impedisce ma come ciò che permette», in un recente incontro con gli studenti (11 maggio 2018, Roma) trasmesso da Rai Scuola in diretta streaming, ha ribadito il suo personale e sfavorevole parere sull’uso dei voti nella scuola, contestandone finalità ed efficacia. La sua ostilità all’uso dei voti nel sistema scolastico non è nuova: nel saggio Democrazia, (ed. Bollati Boringhieri 2011) sostiene che, per ragioni storiche, ancora oggi è più diffusa una tendenza complessiva - più o meno consapevole - ad educare all’obbedienza e alla gerarchia piuttosto che alla libertà e alla democrazia; e che «il voto, in questa prospettiva, assume la funzione di premio e di punizione anziché quello di verifica dell’apprendimento», diventando strumento attraverso il quale si impone l’autorità (degli insegnanti e, in generale, del mondo degli adulti).
Voti come premi e punizioni. Educazione alla libertà contrapposta all’educazione all’obbedienza. La parola libertà, in greco antico eleutherìa, «indica nella sua radice indoeuropea l’appartenenza a un popolo» (Enciclopedia filosofica Bombiani). All’appartenenza, Giorgio Gaber e Sandro Luporini hanno dedicato una canzone intera (1996): «L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, è avere gli altri dentro sé. L’appartenenza è quella forza che prepara al grande salto decisivo, che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti in cui ti senti ancora vivo. Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi». Fermare i fiumi e spostare i monti mi sembrano esempi efficaci di eccellenti performance, che secondo gli autori richiedono un soggetto diverso dall’io: il noi. Ma quali e quante scuole (e aziende) riconoscono o premiano il noi come soggetto?
“L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, è avere gli altri dentro sé”
Giorgio Gaber e Sandro Luporini (1966)
Da qualche tempo gira sui social questo aforisma: «I never lose. Either I win or I learn» (il soggetto è l'io). Può essere letto in tanti modi diversi: un inno alla resilienza, un invito all’apprendimento continuo, un auspicio a non arrendersi dinanzi a sconfitte o fallimenti. A me non piace e non convince. La vita non è una gara. Non c’è nulla da vincere. C’è casomai da imparare. Imparare a vivere e talvolta a sopravvivere. Non c’è, alla fine delle nostre giornate, un sistema premiante che ci giudica e decide del nostro destino in relazione all’esito di una valutazione.
La vita, per fortuna, non è competizione. La competizione implica qualcuno, oltreché qualcosa, contro cui competere. Ma possiamo pensare di educare le nuove (e le vecchie) generazioni alla competizione? In un mondo in cui l’interdipendenza dei destini delle persone, dei popoli e dell’uomo con l’ambiente si esprime con tutta la sua forza, la risposta è no. Infausto sarebbe tornare, un voto dopo l’altro, «a poco a poco e poi improvvisamente», all’homo homini lupus di Plautiana memoria.
* Partner di Newton Management Innovation S.p.a.
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