Tutti sappiamo che la nostra carriera sarà un viaggio discontinuo, lungo il quale cambieremo sempre più spesso mestiere, ruoli, settori, datori di lavoro. Al di là di questa consapevolezza, però, nei fatti, continuiamo ad avere un approccio alla carriera reattivo e non proattivo. Ci mettiamo sul mercato alla ricerca di un nuovo lavoro solo quando le cose vanno male, quando perdiamo il posto o quando ci viene imposto un trasferimento insostenibile, un capo insopportabile, una mansione/attività/progetto inaccettabile. Interveniamo sul nostro percorso solo in caso di patologia, «andiamo in officina» solo quando qualcosa si rompe.
Non ci rendiamo conto che invece la nostra carriera ha bisogno di «fare il tagliando» anche e forse soprattutto quando le cose vanno bene, quando ci sentiamo in controllo, quando ci sentiamo riconosciuti e premiati. In questo modo purtroppo finiamo con il perdere treni importanti che passano solo in alcuni momenti cruciali del nostro viaggio professionale. La metafora del «fare il tagliando» non si riferisce necessariamente ad un cambiamento di lavoro, ma più semplicemente a una revisione critica della propria situazione professionale: mettersi in discussione, mettersi in gioco, mettersi sul mercato, per poi magari decidere liberamente e consapevolmente che stiamo bene dove stiamo. In questo senso fare il tagliando nei momenti giusti significa essenzialmente coltivare l’ambizione di essere padroni del proprio tempo e del proprio destino professionale.
Quali sono allora i momenti ideali per «fare il tagliando»?
Sarebbe fin troppo facile rispondere sempre. In realtà esistono due passaggi “anagrafici” cruciali che caratterizzano la quasi totalità delle carriere. Il primo è quello che arriva solitamente intorno ai 30 anni, quando cioè sono trascorsi 3/5 anni dal nostro primo “vero” (non consideriamo i “lavoretti”) lavoro. Perché questo passaggio
rappresenta una finestra propizia per il cambiamento e/o lo sviluppo di carriera? Innanzitutto perché dopo 3/5 anni nella
medesima posizione professionale solitamente si consegue una prima maturità. Siamo in grado di valorizzare altrove quanto
abbiamo appreso, perché padroneggiamo le mansioni e comprendiamo dinamiche e prospettive del nostro lavoro. Inoltre in questa
prima fase è molto probabile che siano emerse le prime risposte definitive alla nostra domanda di fondo: il percorso che abbiamo
intrapreso è coerente con le nostre caratteristiche e le nostre ambizioni?
Insomma intorno ai 30 anni abbiamo già feedback abbondanti sul cammino intrapreso e presumibilmente il nostro “valore di mercato” è già diverso da quello che avevamo quando abbiamo cominciato. D'altro canto però se la nostra prima esperienza si protrae per un periodo superiore ai cinque anni (ovviamente i cinque anni sono un riferimento orientativo e non tassativo) aumenta il rischio di restare imprigionati nella propria posizione.
Tre fenomeni spiegano questo meccanismo di “imprigionamento”:
1) Il cambiamento nella vita è un muscolo. Più stiamo fermi più aumentano le paure e le resistenze al cambiamento stesso, quella vocina interiore diabolica che ci dice
«ma in fin dei conti va bene anche così».
2) Più ci fermiamo nella stessa posizione più si impoveriscono gli stimoli con cui alimentiamo il nostro cervello. Occuparsi sempre delle stesse cose, nello stesso ambiente, con le stesse persone e con le stesse dinamiche e regole genera
non solo frustrazione, ma anche invecchiamento delle nostre competenze.
3) Più ci fermiamo nella stessa posizione più alimentiamo i pre-giudizi di chi sul mercato dovrebbe investire su di noi: «Se non ha mai cambiato finora vuol dire che il cambiamento non è per lui” “è troppo specializzato/costoso per riconvertirsi
nel ruolo e nell’attività che gli potremmo proporre».
In definitiva salvo le mille eccezioni (per esempio in molti ambiti della pubblica amministrazione) di chi si trova nelle fortunate condizioni di dire «hic manebimus optime» dopo 3/5 anni conviene cambiare aria e lasciarsi guidare dal desiderio di nuove sfide.
Il secondo momento cruciale per «fare il tagliando» al nostro viaggio professionale arriva intorno all’età di 45 anni. Questo periodo coincide solitamente con l’inizio del secondo tempo o la fine del primo tempo della nostra carriera, «la fine dell’inizio» come avrebbe detto Churchill. Questo è il tempo dei bilanci, del realismo, della consapevolezza di ciò che potremo fare, ma anche di ciò che non potremo fare. È il tempo in cui tramontano i sogni e non si può più dire «da grande sarò…». È un tempo in cui siamo al massimo dell’efficienza, ma in cui fatalmente cominciamo a perdere flessibilità («non sono più disponibile a trasferirmi», «non faccio più in tempo a imparare questa nuova tecnica», «non ho più voglia di confrontarmi con questo tipo di persone»).
Siamo come dei calciatori di 28/29 anni. Abbiamo ancora grandi chance di progettare e vivere un cambiamento importante, per esempio un passaggio da un settore a un altro, oppure dalla condizione di dipendente a quella di imprenditore o viceversa. Possiamo ancora fare un salto di qualità, ma abbiamo la consapevolezza che tra poco i più ci considereranno maturi, arrivati, troppo vecchi, troppo costosi. Si tratta insomma dell’ultima finestra utile per progettare e vivere un cambiamento da una posizione di forza, con un mix perfetto di energia ed esperienza.
Ovviamente se «saltiamo il tagliando» nulla è precluso. Ci sono over 50, over 60, over 70 che hanno progettato e realizzato cambiamenti straordinari, ma con le difficoltà crescenti di chi si muove nella parabola discendente del proprio percorso. Parlando di parabole per chi ama la matematica i 45 anni sono il punto di flesso della nostra curva di carriera. È importante esserne consapevoli.
* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring
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