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Andare «oltre il compitino»: una guida pratica per esserne capaci

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il lavoro che cambia

Andare «oltre il compitino»: una guida pratica per esserne capaci

Una delle espressioni più ricorrenti sulla bocca di imprenditori e manager quando commentano la performance dei propri collaboratori è «purtroppo si limitano al compitino». In questa accezione sprezzante limitarsi al compitino significa attenersi strettamente e passivamente a istruzioni, contratti, mansionari, senza prendere alcuna iniziativa: «Mi hai chiesto il caffè, ti ho fatto il caffè, mi hai chiesto la perizia ti ho fatto la perizia, mi hai chiesto la telefonata ti ho fatto la telefonata». Un atteggiamento che è figlio di una mentalità per cui lavorare significa eseguire qualcosa che è stato prescritto da qualcun altro.

Da questo punto di vista assistiamo quindi ad una sorta di cortocircuito. Imprenditori e manager nell’era dei robot e della competizione sfrenata hanno bisogno di persone che gestiscano in modo creativo situazioni difficilmente riconducibili ad un rigido mansionario mentre i lavoratori, per un mix di mentalità, pigrizia, legittime paure, chiedono istruzioni chiare ed esaustive. Da un lato abbiamo l’imprenditore che pensa «mi aspettavo che sarebbe riuscito a cavarsela autonomamente», dall’altro il dipendente che recrimina «se mi dice di andare oltre il compitino e poi quando lo faccio mi rimprovera e mi invita a non prendere iniziative allora non capisco più niente».

Si tratta un problema di comunicazione non banale visto che per una serie di motivi relazionali, legali, sindacali e organizzativi nessun datore di lavoro al momento dell’assunzione dirà mai «mi raccomando vai oltre il compitino», né al momento della chiusura del rapporto spiegherà che il contratto non sarà rinnovato perché «non sei andato oltre il compitino». Così ogni giorno centinaia di persone si ritrovano senza lavoro e non sanno il perché, ritrovandosi a credere ad espressioni politicamente corrette come «siamo molto contenti del tuo lavoro, ma per esigenze organizzative purtroppo…», quando la reale motivazione è ben altra. E così avanti, di lavoro in lavoro.

Questo fenomeno in Italia diventa particolarmente critico per il combinato disposto di quattro fattori:

1) aumenta il numero di lavori a termine;

2) aumenta il numero di lavoratori autonomi che operano in regime di sostanziale monocommittenza (vale a dire che fatturano ad un unico soggetto con cui hanno un rapporto per molti versi simile a quello di un dipendente;

3) L’Italia resta il paese delle piccolissime aziende con pochissimi dipendenti. In queste realtà la definizione dei ruoli è molto liquida, ed è difficile definire rigorosamente i confini dei compiti delle persone. L’esempio tipico è la segretaria che si occupa anche di contabilità, ma anche di commerciale, ma anche di personale;

4) Secondo i sondaggi il sogno lavorativo degli adulti italiani è il posto pubblico (lo sognava il 15% due anni fa lo sogna il 28% nel 2018), simbolo nella percezione comune di una rigorosa definizione dei “compitini” sancita da un contratto.

Quindi riassumendo abbiamo un paese dove sempre più persone si giocano il rinnovo di un contratto sulla base della propria performance, dove spesso non esistono mansioni, compiti e obiettivi ben specificati, e dove però le persone conservano comunque una mentalità da “compitino”. Una tempesta perfetta. Cosa fare allora per sviluppare un approccio al lavoro che ci consenta di “andare oltre il compitino?” Si può cominciare cercando una risposta a tre interrogativi strategici.

Il primo interrogativo è: “Chi sono i miei clienti e quali potrebbero essere i loro bisogni inespressi?”
Questa riflessione deve partire da una corretta definizione del concetto di cliente. I miei clienti sono tutti coloro i quali traggono utilità dal mio lavoro. Non solo dunque i fruitori finali. Sono miei clienti anche i miei colleghi e il mio capo. Quindi per andare oltre il compitino mi devo sempre chiedere di cosa potrebbero avere bisogno, al di là di ciò che mi hanno chiesto espressamente. Spesso infatti abbiamo dei bisogni di cui non ci accorgiamo o che per una serie di motivi decidiamo di non rivelare. Quando qualcuno ci offre una soluzione efficiente ad un bisogno non espresso quella persona nella nostra percezione diventa un autentico portatore di valore. Si tratta insomma di intuire e anticipare bisogni non manifestati. L’esempio perfetto si trova nei dialoghi del Commissario Montalbano. Il commissario chiede all’ispettore Fazio di svolgere un determinato compito e l’ispettore reagisce dicendo: «Sapevo che me l’avrebbe chiesto e l’ho già fatto».

Il secondo interrogativo strategico per andare oltre il compitino è: «Qual è il massimo livello di responsabilità e rischio che posso assumermi?»
È un tema molto delicato. Tutti devono attenersi a delle regole e a delle procedure, ma purtroppo nella vita lavorativa si vengono a creare delle situazioni border line in cui il lavoratore vive il dilemma dell’assunzione di responsabilità. In questi contesti emergono aspetti personali relativi alla personalità e alla capacità di gestire le emozioni e lo stress. Per questo motivo è importante che ciascuno di noi conosca perfettamente le reali conseguenze delle proprie assunzioni di responsabilità. Troppo spesso, infatti, ci lasciamo imprigionare dal terrorismo psicologico di chi invoca sanzioni e penali pesantissime (che in realtà non ci sono) per poi lamentarsi della nostra inettitudine quando gli diciamo che non ce la siamo sentita di prendere un’iniziativa.

Il terzo interrogativo strategico per andare oltre il compitino è: «Come posso valorizzare ciò che ho fatto agli occhi dei miei clienti?».
Come sappiamo non è più sufficiente lavorare a regola d’arte. Bisogna anche saperlo raccontare, saperlo vendere. Questa dinamica del mondo del lavoro è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo sempre apprezzato le delizie dei ristoranti, ma solo negli ultimi anni abbiamo cominciato ad apprezzare il mestiere dello chef, da quando gli chef hanno iniziato a raccontarcelo. Se esco dalla cucina e vengo al tavolo a presentare un mio piatto, mutatis mutandis, in un altro contesto, posso anche strappare un minuto al mio capo per descrivergli come ho gestito una telefonata difficile. Da questo punto di vista l’errore che si compie è quello di ritenere che gli altri riescano a cogliere sempre e comunque il valore del nostro lavoro. Non sempre è così. Se non lo mettiamo in vetrina il nostro capo/datore di lavoro probabilmente non si accorgerà di ciò che abbiamo fatto. E finirà per immaginarci banalmente impegnati nel nostro compitino.

Per raccontarsi efficacemente purtroppo è fondamentale essere realmente innamorati del proprio lavoro. Siamo manovali o costruttori di cattedrali? Dipende da come ci percepiamo. Recentemente sono stato ingaggiato come consulente in una multinazionale che produce vetro. Nella stessa giornata ho incontrato un operaio che mi ha detto «controllo che le bottiglie siano conformi alle specifiche» e un secondo operaio che mi ha detto «quando al bar o al ristorante ti servono una bottiglia è perché io ho verificato che fosse la migliore bottiglia possibile». Stesso lavoro due racconti diversi. Come sempre alla fine dipende tutto da noi.

* Managing Partner della società di consulenza e formazione Sparring

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