Mondo

Avanza veloce il modello iperflessibile di Uber nel lavoro made in Usa

  • Abbonati
  • Accedi
I dati sul peso della gig e sharing economy

Avanza veloce il modello iperflessibile di Uber nel lavoro made in Usa

Gig economy, alternative jobs, contingent workers, independent contractors. La nuova terminologia del lavoro flessibile e iperflessibile eccola qui. Il tema, nelle sue mille declinazioni, tiene banco. Del resto le riforme del mercato del lavoro sono uno dei cardini della ricetta per la ripresa economica indicata dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fondo monetario nei diversi casi di crisi del debito, per quanto la cura non abbia abbia prodotto sempre risultati positivi, a parte Spagna e, anche di più, Irlanda.

Ne ha preso nota con una terza pagina il Financial Times, che ha messo in evidenza come la ripresa abbia preso parte di quel suo moderato slancio dal boom dei contratti a tempo, in aumento ovunque dal 2005 a oggi, con l’Italia capofila (+3,7%, dati Ocse Reuters Datastream pubblicati dal Ft). Accade proprio nel continente in cui il lavoro stabile e protetto è stato grande protagonista del miglioramento delle condizioni di vita della classe media negli ultimi decenni. Intanto, la povertà avanza tra chi ha un lavoro: il 22% delle famiglie che traggono sostentamento da lavori a termine si trovano sotto il livello della povertà.

Sin qui l'Europa.

La «uberizzazione» del lavoro
Anche negli Stati Uniti i dati certificano un cambiamento profondo in atto per il mercato del lavoro, già strutturalmente molto più flessibile che nel Vecchio continente. La spinta ulteriore alla crescita dell'instabilità dei rapporti di lavoro l'hanno data le start up miliardarie, piattaforme tecnologiche come Uber o Airbnb, alfieri della sharing economy, che hanno creato un nuovo mondo di opportunità per chi è disoccupato o semplicemente vuole integrare il proprio salario. È una nuova area di iperflessibilità priva di tutele, affidata alle mutevoli esigenze del datore di lavoro e ai giudizi degli utenti: il driver di Uber che non ottiene cinque stelline, come è noto, deve cercarsi un'altra fonte di guadagno.

I rivoli della contrattualistica sono tanti, la classificazione è ricca di sfumature. Mentre, per fare un esempio, la maggior parte dei contratti a termine e part-time standard sono nell'edilizia, nel commercio, nell'industria, nei servizi all'istruzione, nella ristorazione e nel settore ricettivo, per quanto riguarda i lavoratori delle nuove tecnologie si può indifferentemente parlare di liberi professionisti, lavoratori autonomi o free-lance.

Quanti sono i lavoratori a termine negli Stati Uniti?
Le stime più recenti sono il frutto di un lungo lavoro del Gao (Government Accountability Office), la commissione governativa incaricata di analizzare il molto variegato universo dei contingent workers, i lavoratori a termine. Si va dai contratti temporanei e a chiamata, compresi i part-time dei servizi, fino ai self-employed (possiamo tradurlo con “lavoratori autonomi”, come le partite Iva in Italia), che popolano la emergente gig economy o gigonomy.

Quest'ultimo è uno slang derivato dal mondo dello spettacolo, dove “gig” sta per performance dal vivo. Si tratta dell'economia, spiega l'Urban dictionary, “in cui non esiste un vero lavoro” e la fanno da padrone i contratti in cui una qualsiasi forma di copertura previdenziale è pura utopia.

L'ultimo rapporto Gao , datato aprile 2015 e consegnato al Senato, parla di un complessivo 40,4% di lavoratori a termine negli Stati Uniti su un totale di 148 milioni di occupati. Erano il 30,6% nel 2005. Si badi che quel 40,4% è molto segmentato. Non si tratta sempre di sottoccupati e sfruttati. Ecco perché la commissione distingue tra “core contingent”, i veri lavori temporanei e a chiamata, che nel 2010 erano circa l'8% del totale degli occupati (circa 12 milioni), e i “lavori alternativi” - che comprendono liberi professionisti, autonomi e part-time - pari al 32,4% (poco più di 47 milioni).

Entrambi i dati sono comunque in aumento rispetto alla precedente rilevazione del 2006: rispettivamente +1,7% e +3,8%. E chissà cos’altro sarà successo dal 2010 a oggi (per saperlo si dovrà attendere il prossimo rapporto).

Lo scarto nei redditi fra tutelati e no
In tutti i casi ci sono consistenti differenze nei redditi fra lavori stabili e no, in media l'11% in meno per i temporanei, con punte massime del 17% in meno per i professionisti e i tecnici. Sostanziali anche le differenze nelle coperture assicurative: 61% i temporanei contro il 78% dei “garantiti”, anche se la differenza diventa 25-55 quando si analizza il dato delle coperture offerte dai datori di lavoro (alcuni lavoratori non le accettano perché, ad esempio, il coniuge ne ha già una).

La crescita del lavoro instabile
Questi dati hanno un peso determinante se si pensa che, come riporta una ricerca dell'American Action Forum basata sui dati del Gao e sul General Social Survey (prodotto dal National Opinion Research Center dell'Università di Chicago) l'area del lavoro inteso genericamente come non garantito è quella che ha registrato la crescita più importante: +38,2% fra il 2002 e il 2014 (a un ritmo annuale compreso fra l'8,8 e il 14,4%) contro il 7,2% di tutto il nuovo impiego creato nello stesso periodo. Dal 2010 al 2014 i lavoratori indipendenti sono cresciuti di circa 2,1 milioni (sempre stime dell'AAF), pari al 28,8% di tutti i nuovi lavori nel periodo.

E non è tutto. Dall'inizio della ripresa dell'economia Usa dopo la crisi, nel 2009, sono fioriti quasi 1,3 milioni di imprese individuali. Praticamente surclassata la crescita di tutti gli altri tipi di imprese, visto che questa area arriva a rappresentare il 75% delle nuove attività. Per quanto riguarda le 270mila imprese individuali nate nel 2012 e nel 2013, tre settori hanno pesato per il 60% della crescita: altri servizi; immobiliare (affitti e leasing); trasporti e stoccaggio.

Il contributo della sharing economy
Le ultime due voci corrispondono proprio al business dei campioni della sharing economy, ovvero Uber, Lyft (che non opera in Europa e quindi è meno nota) e Airbnb. Ad esempio fra il 2002 e il 2008, si legge nello studio AAF, il numero di nuovi taxi e limousine era cresciuto al ritmo del 4,3% annuo. Dalla nascita di Uber, guarda caso proprio nel 2009 (bravo il ceo Travis Kalanick a fiutare gli albori della ripresa e a invadere la nuova prateria), il tasso di crescita è stato del 7 per cento (fino al 2013), con un giro d'affari superiore di quasi 520 milioni di dollari e decine di migliaia di nuovi “posti” di lavoro nel settore.

Uber a giudizio in California
Alcune di quelle decine di migliaia bussano proprio in queste ore alla porta di Uber in una causa civile in California per vedersi riconosciuti quei diritti da dipendenti (dalle spese per l'auto agli straordinari a una polizza sanitaria) piuttosto che da liberi professionisti (cioè, zero) che la “uberizzazione” del lavoro vorrebbe finissero definitivamente nel museo archeologico della contrattualistica.

Se l'azienda di San Francisco dovesse perdere la partita legale potrebbe essere travolta dall'entità dei rimborsi e vedrebbe crollare dalle fondamenta il suo modello di business, che riguarda già un milione di persone in tutto il mondo.

© Riproduzione riservata