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Il ministro dell’Industria di Singapore: siamo pronti per le Pmi…

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intervista

Il ministro dell’Industria di Singapore: siamo pronti per le Pmi italiane

Foto Afp
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Progettazione del futuro, culto della legalità, ricerca costante dell’efficienza e investimenti nel capitale umano. È così che Singapore, appena mezzo secolo fa un minuscolo e povero Stato alla sfida dell’indipendenza, oggi può vantarsi di avere uno dei più alti redditi pro-capite al mondo e di essere un gigante per facilità di fare impresa. Un miracolo ottenuto con qualche ricetta segreta? Nulla di tutto questo, chiarisce il ministro dell’Industria S. Iswaran, a Roma in occasione della visita del presidente Tony Tan, la prima di un capo di Stato di Singapore in Italia.

«Non sono sicuro - spiega Iswaran - che termini come miracolo e segreto siano appropriati. Il nostro premier e fondatore Lee Kuan Yew (scomparso nel 2015, ndr) era convinto che Singapore non dovesse mai dare per scontato il proprio posto nel mondo. Così, fin dall’inizio ci siamo concentrati su come continuare a essere rilevanti per il mondo e su cosa offrire di valore ai nostri partner, Stati, aziende o persone. Questo si combina con l’impegno a costruire un contesto favorevole alle attività economiche. Singapore deve essere un Paese dove fare impresa sia facile, dove le regole siano chiare e non ambigue, in modo che chiunque voglia fare affari con o attraverso Singapore sappia di avere la totale tutela delle leggi. Ci siamo concentrati sull’efficienza e l’efficacia della governance, a livello politico e burocratico. Ovviamente abbiamo dato grande importanza all’obiettivo di creare un’economia connessa con i mercati globali. Sono alcuni dei fondamentali che cerchiamo costantemente di rinforzare e adattare alle circostanze: in 50 anni bisogna saper rispondere ai cambiamenti. Abbiamo cominciato come un’economia manifatturiera a basso costo, cercando di attrarre investimenti esteri in tutti i settori, e nel corso degli anni, queste attività economiche si sono evolute, risalendo la catena del valore».

Come immagina Singapore tra 20 anni?

È molto difficile da dire. Posso però dire cosa stiamo facendo per posizionarci al meglio. Ci sono fattori esterni e interni che influenzano il modo in cui le nostra economia si svilupperà. Ci sono i cambiamenti che le nuove tecnologie innescano. Ci sono intorno a noi mercati che crescono, diventano sempre più sofisticati e competono con noi, ma che ci offrono anche opportunità. E ci sono fattori interni, come l’invecchiamento della popolazione, che ci frenano. Alla luce di tutto ciò, ogni 7-10 anni riesaminiamo la nostra economia, guardiamo al futuro e vediamo cosa fare per prepararci ai prossimi 10-15 anni. Il Governo ha istituito un Committee on the future economy, di cui sono co-presidente, che fa proprio questo: studia come queste forze ci influenzano e come rispondere. E lo facciamo a tutti i livelli: cerchiamo di capire che genere di lavoratori e di aziende ci servono, quali settori sono più esposti ai cambiamenti distruttivi e quali offrono opportunità, e cerchiamo di capire quali sinergie si possono costruire.

Singapore dipende molto dalla domanda mondiale. È un punto debole?

Quando sei uno Stato di 5,5 milioni di abitanti, non hai scelta, devi guardare al mondo. Ma come cerchiamo di difenderci da questa vulnerabilità? Le fondamenta sono la politica di bilancio e quella monetaria. Grazie a una spesa pubblica di appena il 16-17% del Pil, possiamo tenere la tassazione a livelli competitivi. E ovviamente, con un interscambio che è tre volte il Pil, facciamo molta attenzione ai cambi. Ciò detto, cerchiamo di diversificare. Sia all’interno, per non essere dipendenti da un solo settore, sia all’estero, ampliando i mercati di sbocco.

Cosa pensa succederebbe se gli Usa adottassero politiche commerciali più chiuse?

Gran parte dell’economia Usa dipende dai mercati globali, tanto che un posto di lavoro americano su cinque dipende dall’export. Per questo non credo che per gli Usa il problema sia disimpegnarsi, ma anzi di trovare vie per integrarsi ancora di più. Questa forse è la ragione per cui partecipano al Tpp, un trattato che coinvolge un’area enorme e che alza l’asticella degli accordi commerciali. Qualunque sarà la nuova leadership Usa, farebbe fatica a ridimensionare l’apertura internazionale. E credo che il Tpp sia un esempio del modo in cui gli Usa vogliano impegnarsi in questa parte di mondo.

Le relazioni economiche tra Italia e Singapore sono ancora molto sottili. Cosa serve per farle crescere?

C’è molto potenziale. Le grandi aziende sono già a Singapore. Ma ora ci sono opportunità anche per le vostre Pmi, che sono molto interessanti, soprattutto nei settori della moda, dell’alimentare, dell’arredamento, dell’ingegneria. Credo siano alla ricerca di nuove opportunità e in Asia ce ne sono molte. Si tratta di adattare l’offerta all’esigenza dei mercati. Mettere in connessione le nostre imprese in questi settori sarebbe un buon modo per approfondire le nostre relazioni. E la rimozione di Singapore dalla black list del fisco italiano è stato di sicuro un passaggio importante in questo senso. Poi sarà fondamentale il trattato di libero scambio tra Ue e Singapore.

Cosa suggerirebbe a un’impresa italiana che progetti di avere una presenza nella regione?

Dovrebbe cominciare con il riconoscere che Asia e Asean sono opportunità per ritmi di crescita e integrazione, attraverso l’Asean economic community. Poi dovrebbe capire da dove entrare. A Singapore ci sono un contesto familiare e gli strumenti per comprendere i mercati della regione, che sono molto diversi tra loro e differenziati al proprio interno. Rovesciando il punto di vista, le nostre società, soprattutto le Pmi, stanno cercando di sviluppare le proprie risorse in alcuni settori, in particolare nell’ingegneria, nei macchinari e nella manifattura e sempre più nella digital economy, e-government, e-services: è in questi ambiti che i nostri imprenditori cercano opportunità di collaborazione in Italia.

(Vedi il Rapporto Paese Singapore)

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