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Le «fatiche» di Donald Trump per l’unità del partito

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cleveland, usa

Le «fatiche» di Donald Trump per l’unità del partito

CLEVELAND - Convention repubblicana, giorno due. Il “talk of the day”, il chiacchericcio mattutino soprattutto fra i delegati anti Trump arrivati alla Convention di Cleveland in rappresentanza dei Ted Cruz, Marco Rubio e John Kasich, riguarda l’unità del partito: c’è davvero o si tratta soltanto di una cosmesi forzata? Di più, quanto durerà e con quale intensità la resistenza anti Trump? Di certo lunedì notte, prima di partire con il programma ufficiale della convention, c’è stata maretta quando si è trattato di votare sulle procedure della Convention, una procedura puramente formale: molti delegati hanno chiesto il conteggio dei voti su tutto il pacchetto regolamentare, una richiesta che avrebbe fatto saltare il programma di interventi, video, canzoni, benedizione e inno nazionale, coreografato nel dettaglio dalla campagna Trump.

Davanti a questa (attesa) contestazione è stato il presidente di turno, il deputato dell’Arkansas Steve Womack a tagliare corto la discussione passando al normale voto per acclamazione: «Quali sono i si (Yeahai)? E i No (Neahi?) Bene, i sì vincono e la mozione è approvata». Molti delegati hanno protestato: «È coercizione mascherata da unità del partito» ha detto il sentore statale dello Utah Mike Lee, uno dei leader del movimento anti Trump all’interno del partito. «Questa non è democrazia», inneggiava un gruppetto in un angolo del Palazzatto dello Sport di Cleveland.

Ma Womack ha seguito le regole. I contestatori avevano già provato nelle sedute preparatorie a bloccare la mozione di avvio, ma la settimana scorsa, in sedute preliminari, non avevano avuto i 28 voti necessari per chiedere un voto obbligatorio di tutti delegati per approvare le procedure della Convention. Così si è passati all’opzione due, una procedura molto tecnica che richiede una maggioranza dei delegati in almeno sette stati per poter chiamare il voto direttamente in Convention. I contestatori riferivano alla presidenza di averne ben undici. Ma alla conta ce n’erano solo 9 a quando si è arrivati al voto fra i delegati tre stati hanno fatto marcia indietro e ne sono rimasti sei. Per questo la mozione per acclamazione. C’è da dire che i contestatori sono andati molto vicini al boicottaggio. E c’è da aggiungere che una cosa di questo genere non accadeva da qualche decennio. Questo anche per dare l’umore della Convention. Ted Cruz e Marco Rubio ad esempio parleranno domani sera, ma John Kasich, il Governatore dell’Ohio, ha detto che non potrà partecipare per “altri impegni”.

La vicenda politica a questo punto diventa un’altra: quanto di queste divisioni saranno usate da Hillary Clinton per dimostrare che Trump non può contare sull’unità del partito? Le immagini della protesta interna saranno certamente usate contro di lui in spot pubblicitari. Sappiamo anche che influenti leader del partito come il Presidente della Camera Paul Ryan sono molto freddi nei confronti di Trump.

Ma alla fine le scaramucce del primo giorno, almeno qui a Cleveland, finiranno in una tempesta in bicchier d’acqua. Che Trump abbia la maggioranza è appurato. Che molti dei delegati contro di lui siano adesso dalla sua parte è un fatto. Prendiamo James Higgins, delegato dello stato di New York che era ostinatamente contro Trump durante le primarie: «A questo punto si tratta di combattere per obiettivi anche più elevati della presidenza Trump, la mia motivazione e quella di molti altri è una soltanto: la Corte Suprema. Vogliamo regalare la maggiorenza della Corte ai democratici? Sarebbe un disastro e dunque sì, si vota per Trump».

Già ieri, del resto, durante i discorsi della prima notte, la base dei delegati, e che fosse a maggioranza schiacciante non c’erano dubbi, ha dato la prova decibel che il partito fosse schierato dietro Trump: bastava sentire le acclamazioni quando Donald è apparso con Melanie per presentarla ai suoi compagni di partito. E non vogliamo credere che fosse solo per l’aspetto da Miss in passerella della signora.

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