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«Hard» o «soft» Brexit? Perché Londra non sceglie

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il distacco dalla ue e la sfida della may

«Hard» o «soft» Brexit? Perché Londra non sceglie

Theresa May (Reuters)
Theresa May (Reuters)

Sarà stata l’emozione, sarà stata la passione, sarà stata la volontà di mettere pace in un partito a pezzi, ma la signora primo ministro del Regno Unito, Theresa May, s’è concessa una bugia. «La dicotomia hard Brexit-soft Brexit non esiste», ha detto dal palco della conferenza Tory di Birmingham, mettendo sul mercato delle idee la prospettiva di una via buona per tutto e buona anche per tutti. Spogliata della retorica politica, la realtà va nella direzione opposta: Londra deve decidere se vuole uno strappo radicale oppure distanziarsi con giudizio dai partner. La scelta non è stata ancora fatta nonostante le parole della premier, a una prima lettura, indichino la volontà di un brusco addio.

Lo suggerisce l’accento che Theresa May ha posto sulla piena sovranità del Regno in tema di immigrazione e sulla giurisdizione delle corti britanniche. Non è poco, ma è quanto la platea del congresso Tory domandava. E non può bastare per immaginare che Londra abbia già adottato l’opzione zero. Ovvero quell’hard Brexit che significa adesione alle regole commerciali del Wto senza accordi specifici con l’Ue, scelta tecnicamente non affatto agevole come crede chi la evoca. O, tutt’al più, con un’intesa minima di libero scambio fra il blocco continentale e il Regno di Elisabetta.

Soft Brexit implica, al contrario, la partecipazione britannica al mercato unico (in cambio di libera circolazione dei lavoratori) con accordi formulati ad hoc per la Gran Bretagna non essendo replicabile il modello norvegese o svizzero per esplicita volontà di Londra. O, tutt’al più, l’adesione all’unione doganale con modalità ancora tutte da definire. Theresa May nel rivendicare il diritto a frenare l’immigrazione, ma non ha mai detto di voler tornare alle regole della World trade organization, cesura radicale teorizzata, da un pugno di ministri, seppure influenti. Non crediamo che la Gran Bretagna abbia deciso fin d’ora lo strappo totale, in contraddizione con l’approccio pragmatico che l’ha sempre contraddistinta, sfidando il complesso finanziario – industriale, in prima linea nel reclamare scelte morbide. Il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond non a caso ha indugiato sul valore aggiunto assicurato dai cervelli d’importazione e sulle turbolenze che attendono l’economia del Paese. Londra ha sorpreso chi si aspettava il collasso economico a partire dal 24 giugno con una performance superiore alle attese, ma Brexit, va ribadito, non è un evento in sè stesso. È la marcia verso la disintegrazione di un intimo legame politico, economico e soprattutto commerciale e, in quanto tale, è fenomeno destinato a maturare progressivamente. La decisione di Nissan di congelare gli investimenti in assenza della garanzia che non saranno imposte tariffe doganali sul commercio di auto e componenti, è il primo sintomo di quanto accadrà.

La dicotomia hard Brexit- soft Brexit è pertanto ben spianata davanti al governo di Downing street che, tuttavia, farà di tutto – crediamo - per scolpire una linea mediana. Il trade off passa per il solito teorico pertugio: accesso a pezzi del mercato interno in cambio di parziali vincoli all’arrivo di lavoratori introcomunitari. Un’acrobatica compenetrazione di interessi, non affatto facile da negoziare in termini commerciali, ma soprattutto politici. Le esigenze delle parti sono speculari: Londra vuole poter dire di aver riguadagnato piena sovranità senza porre in pregiudizio il benessere economico, Bruxelles mira a impedire esattamente questo. Mira, cioè, ad evitare che l’esempio di Londra faccia scuola, spargendo il contagio della non Europa fra le capitali dell’Unione.

A tre mesi abbondanti da quel “no” popolare inatteso è ancora difficile immaginare una linea di compromesso che salvi la faccia al governo di Londra davanti all’elettorato, senza danneggiare il quadro economico e garantendo agli altri partners la protezione dal virus degli addii. Anche l’immaginifico documento del gruppo di Bruegel arrivato a ipotizzare una partnership continentale anglo-europea non soddisfa le esigenze politiche dei due fronti. Neppure l’idea di trovare, sul tema generale dell'immigrazione, terreno comune fra Europa continentale e Gran Bretagna appare possibile. Per Londra gli immigrati da cui tutelarsi sono soprattutto rumeni, polacchi, magari spagnoli e forse anche italiani, ovvero i partner dell'Ue, per i Ventisette sono i rifugiati dal Medio Oriente o dal continente africano.

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Gli spazi d'intesa si confermano minimi, l'opzione hard o soft Brexit resta l'alternativa vera. Con una significativa differenza maturata nel corso del fine settimana. Fino a sabato la tempistica era indefinita, dalle 16 di domenica, quando Theresa May ha confermato che entro il marzo 2017 sarà invocato l'articolo 50 sulle regole di recesso dall'Ue, è cominciato il conto alla rovescia. Due anni e sei mesi da oggi per un accordo che Londra non ha ancora la minima idea di come e con quale personale negoziare, nè a quali – realistici – obbiettivi aspirare.

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