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In Siria il grande fallimento di Obama

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In Siria il grande fallimento di Obama

«Posso riassumere la mia politica estera in una frase», disse Barack Obama il 26 aprile 2014, in coda all’Air Force One, dove sedevano i giornalisti in volo fra la Corea del Sud e la Malesia: «Don’t do stupid shit». Tutte le altre volte in cui avrebbe ripetuto la frase fondamentale della sua presidenza, la parola “shit” sarebbe stata sostituita dalla più moderata “stuff”: «Non fare cose stupide».

La ricostruzione è di Mark Landler del New York Times, quel giorno a bordo del jumbo presidenziale. Nonostante i molti discorsi memorabili, nessuna frase definisce gli otto anni di amministrazione Obama sulla scena internazionale quanto questa. In qualche modo equivale allo «It’s the economy, stupid», col quale Bill Clinton stese George Bush padre alle elezioni del 1992. La cosa più sbagliata, avrebbe articolato Obama, è coinvolgere gli Stati Uniti dove l’interesse nazionale non è direttamente in gioco: per esempio in Siria, affogata in una guerra settaria senza soluzione o in Ucraina, con cui gli scambi commerciali erano minimi.

Sarebbe ingiusto dare un giudizio finale alla politica estera di Obama limitandosi a questo. Ci sono stati importanti successi e comunque la sua America partiva con l’handicap dell’interventismo neo-imperialista dei precedenti otto anni di George Bush figlio. Solo la Libia è un’eccezione: «Quel che abbiamo fatto laggiù - ammette Dennis Ross, consigliere per il Medio Oriente di questo come dei precedenti cinque presidenti - «è l’equivalente di ciò che Bush e Rumsfeld fecero in Iraq». Ma anche in Libia Obama si rifiutò di guidare la coalizione che fece cadere Gheddafi. La sua America è diventata un po’ più simpatica e anche i nemici più duri devono ammettere di aver atteso per decenni un disimpegno così.

Nella semplicità quasi rivoluzionaria del messaggio, «non fare cose stupide» ha ridefinito il ruolo di una superpotenza non più globale ma selettiva nell’uso del suo potere. Implicitamente era come riconoscere che tutti gli imperi prima o poi finiscono. Anche quello americano. L’anno scorso, in un’intervista al mensile “The Atlantic”, Obama aveva completato il proprio pensiero spiegando di rifiutarsi di applicare il «libretto delle istruzioni di Washington» previsto in ogni crisi: l’intervento militare. Quel modo di agire, aveva detto, «può anche essere una trappola capace di portare a cattive decisioni». Una visione nuova, post imperiale. Ma il mondo non è cambiato e nella sua immutabile visione hobbesiana del potere continua a pretendere che una superpotenza faccia il suo mestiere di superpotenza: come la Russia che senza esserlo è tornata a essere percepita e temuta come una superpotenza.

La presidenza Obama era incominciata con fuochi d'artificio e grandi speranze: il Premio Nobel per la pace, concesso con troppa fretta per la sua intenzione di ridurre le armi nucleari; il grande discorso all’Università del Cairo dove tese la mano all’Islam dopo otto anni di conflitti. Come sostiene Joseph Nye, ex negoziatore del disarmo nucleare e direttore della Kennedy School of Government di Harvard, «ci si attendeva un presidente della trasformazione. Avrebbe bandito le armi nucleari, aggiustato le relazioni col mondo musulmano, avremmo avuto un reset con la Russia. Erano obiettivi ambiziosi, ma alla fine si è dimostrato un prudente minimizzatore». Per esempio la pace fra israeliani e palestinesi, obiettivo di ogni presidente per entrare nella storia: Obama aveva capito che il problema era l’atteggiamento troppo squilibrato a favore di Israele. Ma ai primi ostacoli, già nel primo mandato rinunciò all’impresa, affidandola nel secondo a John Kerry e lasciando il suo segretario di Stato senza il sostegno necessario del presidente.

Tutte le iniziative e i successi internazionali di Obama guardavano al futuro: la priorità verso Asia in generale e Cina in particolare, gli accordi sul clima, quello sul nucleare iraniano – forse il più importante – il cui eventuale successo potrà essere verificato fra un decennio. Anche la fine dell’embargo a Cuba lo è stato: per un presidente che non era culturalmente né generazionalmente figlio della Guerra fredda, risultava incomprensibile che una disputa ideologica vecchia mezzo secolo negasse relazioni normali con un Paese a 130 miglia dalla Florida.

Ma esistono crisi le cui cause geopolitiche sono molto più grandi di un semplice mandato presidenziale, anche se doppio; che hanno dinamiche settarie più medievali che contemporanee, e che tuttavia una superpotenza non può ignorare: non c’è luogo al mondo dove il passato nega il futuro come in Medio Oriente. Soprattutto la Siria, il fallimento della politica estera di Obama.

L’assunto che la crisi siriana non fosse una priorità né minacciasse la sicurezza americana si è rivelato sempre più sbagliato con il progredire della guerra: la pressione dei profughi che minaccia la stabilità politica dei principali alleati americani in Europa e divide il fronte di quelli in Medio Oriente; la crisi nella quale sono maturati il radicalismo islamico e le ambizioni geopolitiche russe non sono danni collaterali ma falle sotto la linea di galleggiamento degli interessi e della credibilità americana. Per quanto modernamente selettiva, una superpotenza democratica che esclude dalle priorità un bilancio prossimo ai 300mila morti e a 10 milioni fra profughi e sfollati alla fine non è meno cinica di una Russia che interviene alla vecchia maniera. Nessuno, tuttavia, potrà dire che a Obama sia mancata la coerenza. Alla fine degli anni 70, chiamato con altri studenti a dare un giudizio sulla pace fra Israele ed Egitto negoziata da Jimmy Carter, il diciottenne Obama – già molto sicuro di sé - scrisse che era «ingenuo» pensare di condizionare quella regione: «Gli Stati Uniti hanno un’influenza limitata in Medio Oriente, e devono essere visti come una parte, non un controllore del sistema mondiale».

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