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Dossier La rabbia della middle class alla Casa Bianca

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Dossier | N. (none) articoliSpeciale America al voto

La rabbia della middle class alla Casa Bianca

NEW YORK –C’è una rivoluzione in corso in America. La trionfale performance di Donald Trump nelle elezioni di ieri notte, il testa a testa prima e poi la vittoria contro Hillary Clinton in Stati che dovevano essere sicuri per l'ex First Lady, dimostra quanto la pancia del Paese avesse, e abbia ancora oggi dopo il voto, i sentimenti radicati nella protesta. Protesta contro le mancate promesse per il cambiamento, protesta contro l'establishment: che sia establishment politico, democratico o repubblicano, che si tratti di grandi aziende o dell'1% più ricco della popolazione importa poco. Si vota contro. E Trump, pur essendo un miliardario, era disprezzato e dileggiato dall'establishment. Ed è diventato così l'alfiere antiestablishment in nome del popolo.

Eppure da oggi, a elezioni finite, sappiamo che per gli Stati Uniti c'è una missione più importante della divisione politica. È quella per recuperare la credibilità perduta di questo Paese in mille rivoli, ora di politica interna, estera e non ultimo economica.

Per questo i mercati nella notte hanno reagito malissimo. Per l'incertezza sulla possibilità di recuperare in tempi brevi questa credibilità, in un momento in cui paesi ostili come la Russia o antagonisti coma la Cina cercano di avanzare quanto più possibile a danno dell'America. Ecco perché i mercati hanno mostrato nervi tesi quando si è saputo che Trump avrebbe vinto: i futures sul Dow Jones lasciavano quasi il 4% oltre 600 punti, il Peso messicano fra l'8 e il 10% ai minimi storici. La posta in gioco non riguarda ormai singole politiche economiche o sociali, ma lo stesso futuro dell'Occidente industriale e del multilateralismo.

Abbiamo discusso tutti di questa America al bivio davanti a elezioni storiche, dilaniata da forze opposte, da un populismo che da periferico si è spostato al centro dell'equazione politica e da spaccature demografiche e geografiche senza precedenti. Ci siamo schierati spesso su fronti opposti, sui singoli temi o su quelli di fondo. E abbiamo assistito con sgomento a spettacoli non edificanti per il processo democratico. Abbiamo criticato candidati che nella migliore delle ipotesi sembravano “opachi” da una parte e dall'altra e ci siamo chiesti come fosse possibile che una potenza economica e politica come l'America non fosse in grado di esprimere qualcuno di meglio. A partire da oggi il lavoro, l'olio di gomito, lo sforzo per il recupero della credibilità perduta deve avvenire qui negli Stati Uniti d'America con la prossima amministrazione Trump. Senza pregiudiziali. E con l'intento comune di rafforzare una Nazione che, comunque sia, il giorno dopo le elezioni resta spaccata.

Chi nella classe media si sente trascurato, chi si si sente vittima delle innovazioni tecnologiche che “rubano” posti di lavoro più di quanti ne rubi il libero commercio, chi deve fare due turni al lavoro per arrivare alla fine del mese o è oberato di debiti, forse si sentirà meglio per aver ottenuto un riscontro dal voto di protesta. Ma queste soddisfazioni troppo spesso sono purtroppo effimere. È a loro per primi che la nuova Casa Bianca in transizione di Trump deve tendere la mano. Non ci saranno risultati a breve, ma, dopo la strumentalizzazione elettorale, ci dovrà essere la riconciliazione fra tutte le forze, schierate senza esclusione di colpi su fronti opposti.

In America - occorre dirlo - questo è sempre successo. Ma questa volta sarà più difficile perché alle differenze politiche dei candidati si sono aggiunte fragilità istituzionali sconosciute: questo processo di riunificazione nazionale non potrà esserci senza il risanamento delle “istituzioni” in crisi. Dal Parlamento ai partiti, dalle agenzie federali ai singoli politici, deputati, senatori, dovunque essi siano dovranno cambiare. Senza che si recuperi il gusto del compromesso in nome di un risultato.

Che i tempi cambino sempre dobbiamo metterlo nel conto. Se il sogno americano è meno rosa di un tempo, non si è esaurito come sostengono i nuovi profeti del pessimismo, anch'esso fenomeno sconosciuto fino a pochi anni fa in questo Paese. Le nuove frontiere della tecnologia, della medicina, dei diritti civili, portano enormi progressi oltre che tensioni a breve. E in queste elezioni la liturgia quadriennale che porta al voto dopo due anni di feroci battaglie ha funzionato di nuovo. Ieri non ci sono stati incidenti, minacce, brogli elettorali. La democrazia americana non è più debole perché gli attacchi nell'era di Internet si fanno più duri, personali, brucianti. Se un confronto elettorale “libero” mette a nudo scandali, debolezze, difficoltà, consente anche di identificare le fratture su cui lavorare. E di fratture su cui lavorare in America ce ne sono molte: la prima è una frattura demografica e geografica che ha spaccato il Paese davanti alle urne e davanti alla scelta fra due candidati agli antipodi l'uno dall'altro. Bianchi arrabbiati contro donne, afroamericani contro i conservatori nostalgici del profondo sud ma in fase di espasione, ispano-americani contro chi chiede chiusura. Da oggi, archiviate le elezioni, la priorità diventa quella della riconciliazione nazionale.

È difficile immaginare che questa riconciliazione possa avvenire senza un cambiamento delle dinamiche per la crescita economica. Se le tensioni crescono nella classe media è perché dietro tassi di disoccupazione molto bassi si nascondono redditi reali inadeguati. Si nasconde la sperequazione, l'accumulo di enormi ricchezze nelle mani di pochissimi, la formazione di colossi industriali che hanno più potere di singole nazioni e spesso dello stesso “popolo americano”. È difficile immaginare un percorso di rilancio economico innovativo dopo quasi otto anni di crescita a tassi medi vicini al 2 per cento. Secondo Larry Summers, economista ed ex segretario al Tesoro, siamo entrati in un'epoca di “stagnazione secolare”. L'America deve ritrovare la sua credibilità economica e la credibilità del suo modello, flessibile e aperto contro quelli assolutisti o centralizzati o chiusi che vengono invocati da più parti in Europa. «Let Poland be Poland» diceva Ronald ai tempi della Guerra Fredda. «Let America be America» vien fatto di dire il giorno dopo le elezioni più drammatiche e controverse della più antica democrazia repubblicana del mondo.

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