
Dazi a due cifre per bloccare le importazioni a basso costo, rinegoziazione su posizioni di forza dei trattati di libero scambio, ritiro dall’Organizzazione mondiale per il commercio, pugno duro con Pechino sullo yuan. Questa è l’America che Donald Trump ha promesso ai suoi elettori, un’America lontana parente del campione della globalizzazione e del multilateralismo che il mondo ha conosciuto finora. Ed è in buona parte per questa visione dell’America, dai toni decisamente mercantilistici e isolazionisti, che gli elettori hanno consegnato a The Donald le chiavi della Casa Bianca. Una visione che sembra far calare il sipario sulle due grandi intese di questi anni, la Trans pacific partnership, tra gli Usa e 11 Paesi del Pacifico, e la Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) con l’Unione europea.
Accordi da rivedere
Il nuovo leader del “mondo libero” ha promesso di denunciare e rinegoziare gli accordi commerciali già siglati dagli Stati Uniti (venti), a partire dal Nafta con Canada e Messico, «il peggiore mai approvato dagli Stati Uniti». E se decidesse di andare fino in fondo, avrebbe gli strumenti necessari, senza nemmeno dover passare per l’approvazione del Congresso. Il presidente degli Stati Uniti ha infatti il potere di denunciare un trattato già esistente tramite una dichiarazione alla controparte, con un preavviso di 180 giorni. Da quel momento, partirebbero i negoziati per ridiscutere l’accordo, che però decadrebbe scaduto il termine. Gli uomini del team di Trump hanno spiegato che misure così drastiche sarebbero poco probabili, sottolineando che la semplice minaccia di chiudere il proprio mercato ai partner degli Usa sarebbe sufficiente a convincerli ad accettare condizioni meno favorevoli. Gli Stati Uniti restano la più grande economia mondiale e la loro quota del Pil globale si è mantenuta stabilmente attorno al 25% tra il 1980 e il 2016 (dati Wto). Tuttavia, la Cina, ha fatto lievitare il proprio apporto dal 3 al 15%, ridimensionando quello degli Usa.
Fuori dalla Wto
Con una procedura analoga, Trump potrebbe ritirare gli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), definita un «disastro». Cosa che ha minacciato di fare se le sue regole fossero d’ostacolo al suo obiettivo dichiarato di proteggere l’industria statunitense. Ieri, il direttore generale Roberto Azevedo ha usato toni concilianti in un tweet: «La guida statunitense nell’economia mondiale e nel sistema degli accordi commerciali multilaterali resta di vitale importanza».
Dazi contri i «ladri di lavoro»
Per proteggere l’occupazione americana dai Paesi che «ci rubano» posti di lavoro e imprese, Trump si è detto pronto a imporre dazi del 45% contro le importazioni dalla Cina e del 35% contro quelle dal Messico, minacciando penalizzazioni contro le società americane che spostano le proprie fabbriche a Sud del confine. Quando la Ford ha annunciato il progetto di spostare in Messico la produzione delle sue vetture di piccole dimensioni, Trump ha subito promesso che avrebbe cercato di impedirlo, facendo suonare campanelli d’allarme nei quartier generali dei costruttori di tutto il mondo, a cominciare da quelli tedeschi. L’associazione dei costruttori di auto della Germania, la Vda, che rappresenta tra le altre Volkswagen, Bmw e Daimler, ieri ha dichiarato che «sarebbe preoccupante se gli Stati Uniti si concentrassero sulla propria economia a scapito dei flussi commerciali internazionali». La Bmw a giugno si è impegnata a investire 2,2 miliardi di dollari in un impianto in Messico per la produzione di 150mila auto all’anno. Tre mesi dopo, Audi ha inaugurato una struttura da 1,3 miliardi. Daimler inizierà dal 2018 ad assemblare vetture in uno stabilimento da un miliardo, costruito con Renault-Nissan.
E se per imporre dazi permanenti Trump avrebbe bisogno dell’approvazione del Congresso, il campo sarebbe invece aperto per agire da solo a tutela di settori industriali minacciati da comportamenti scorretti di Paesi esteri, come spiega Donald Grimes, dell’Università del Michigan. È quanto fece George W. Bush per difendere l’acciaio Usa.
I conti con lo yuan
Nei confronti della Cina, Trump ha in serbo anche la “resa dei conti” sul tasso di cambio dello yuan, che Pechino terrebbe artificialmente basso. Il neo-presidente non ci penserà due volte a dichiarare che Pechino “manipola la moneta” per avvantaggiare le proprie esportazioni, mettendo in atto le ritorsioni del caso,a partire dai mega dazi all’import. L’ultima volta che gli Stati Uniti hanno accusato la Cina di manipolare la moneta risale al 1994 e alla Casa Bianca c’era Bill Clinton. Nel 2015, gli Stati Uniti hanno registrato un deficit commerciale di 367 miliardi di dollari con la Cina, sui 531 totali.
Tpp e Ttip
Trump si è anche dichiarato contrario all’intesa di libero scambio nell’area del Pacifico, la Tpp. Sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti rigettano un trattato già chiuso e in attesa della sola ratifica del Congresso. Il prezzo della rinuncia non cadrebbe però solo sui Paesi asiatici a più forte vocazione all’export, come il Vietnam, che su questo accordo contano molto. Tra le “vittime” potrebbero finire anche gli agricoltori di quella Farm Belt che ha spinto Trump alla Casa Bianca e che nell’intesa sul Pacifico vedono la possibilità di penetrare i mercati asiatici. «La Tpp è una cosa che il Congresso potrebbe fare subito per far crescere i salari e l’occupazione nell’agricoltura», ha detto ieri Wesley Spurlock, che ha la sua azienda agricola in Texas ed è presidente della National corn growers association.
Se appare segnato il destino di questa intesa, ha ben poche speranze l’altro mega accordo in discussione da tre anni, la Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) con la Ue.
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