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Dossier In economia allacciamoci le cinture (se Trump non cambia idea)

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Dossier | N. (none) articoliSpeciale America al voto

In economia allacciamoci le cinture (se Trump non cambia idea)

Afp
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Donald Trump: 45° presidente degli Stati Uniti d'America. Quello che per alcuni era sogno e per altri incubo è diventato realtà. Donald Trump, un candidato anomalo che ha catalizzato i malcontenti della società americana, ha saputo attirare voti anche fra coloro che, pur non toccati da malesseri e diseguaglianze, ne avevano abbastanza di “Washington” ( “il palazzo”). Come disse Clint Eastwood – un sorprendente tifoso di Trump – ci vuole qualcuno che sia «politicamente scorretto».

Le elezioni di solito si vincono al centro, ma il “centro” di Trump è difficile da definire. I difetti del “Donald” sono evidenti a tutti, le qualità sono tutte da scoprire. La sola cosa certa è che la vittoria di Trump va a polarizzare ulteriormente un Paese già diviso. Ma adesso la domanda è: come andrà l'economia americana sotto una presidenza Trump?

Potrebbe essere consolante pensare che l'economia andrà per la sua strada, chiunque sieda alla Casa Bianca. I Presidenti – secondo questa vulgata – sono solo delle increspature sul mare del ciclo. L'economia è mossa da correnti profonde: la demografia, il progresso tecnico, gli “spiriti animali” degli imprenditori, la voglia della gente di star meglio e di arrampicarsi sulla scala del benessere...

Ma questa riflessione non consola veramente se il nuovo inquilino della Casa Bianca è così diverso rispetto a quelli che lo hanno preceduto. A parte il malumore di Wall Street di fronte a questo risultato, ci sono grossi punti interrogativi su punti cruciali dell'agenda di Trump: il protezionismo commerciale e l'isolazionismo nel concerto internazionale.

La fiducia, quel collante invisibile dell'economia, è ancora più importante adesso rispetto al passato. Questa fiducia, ferita dalla Grande recessione, si è rimarginata nel presente: la gente è tornata a spendere. Ma si è riaperta sul futuro: appanna l'investimento, ed è l'investimento l'anello che manca perché la modesta ripresa in corso si consolidi. L'apprensione non riguarda solo le imprese: mancano le certezze del passato, le certezze di un futuro che sarebbe stato migliore del presente, manca l'ottimismo di quel “sogno americano” che nel dopoguerra aveva scandito la crescita del Paese. Potrà Trump restituire quell'ottimismo, potrà «fare l'America di nuovo grande», come recitava l'altisonante motto della sua campagna?

Anche se l'economia americana si è ripresa prima e meglio – rispetto alle altre – dalla Grande recessione, rimane vero che la crescita è meno forte di quel che sarebbe legittimo attendersi. Sulle cause del malessere che gira per l'America (come per altri Paesi) e che ha coagulato tanti malcontenti (da Trump a Brexit ai movimenti populisti e anti-sistema in Europa...) i pareri non sono unanimi e nessuno ha una ricetta risolutiva.

L'economia americana – come le altre – avrebbe bisogno di un leader capace di ispirare una ripartenza. Vi sono seri dubbi sul fatto che una personalità così “divisiva” come Trump possa svolgere quel ruolo di ricucitura e di riconciliazione.

Certo, molto dipende dalle persone di cui si circonderà e soprattutto dalla possibilità di cambiare idea. La cosa non è nuova. Nella storia americana, come in quella di altri Paesi, ci sono molti esempi di neo-Presidenti che dicevano una cosa in campagna elettorale e la cosa opposta una volta approdati alla Casa Bianca. Subito dopo l'elezione di John Kennedy, nel 1960, il suo consigliere economico, Paul Samuelson, cercò di convincere (con successo) un Kennedy più che riluttante a tagliare le tasse per rilanciare l'economia. «Ho appena fatto campagna per la responsabilità fiscale e il bilancio in equilibrio e lei mi suggerisce che la prima decisione dovrebbe essere di tagliare le tasse?». Così Jfk, secondo il racconto dello stesso economista, si sarebbe rivolto a Samuelson.
Ancora prima, Franklyn Delano Roosevelt, il presidente americano che tirò l'economia americana fuori dalle secche della depressione con grandi lavori pubblici, all'inizio pensava l'opposto: durante la campagna elettorale – scrive Robert Kuttner in «Obama's challenge» – Roosevelt dichiarò, in un discorso a Pittsburgh, di voler ridurre le spesa federale del 25 per cento. Ma dopo tre settimane al potere cambiò idea, e chiese al suo fidato consigliere Sam Rosenman come fare a spiegare quella sua conversione alla spesa: «Nega di essere mai stato a Pittsburgh» fu la risposta.

Il problema, naturalmente, sta nel fatto che Trump non è Roosevelt, e le posizioni del “Donald” sono state così estreme, in campi diversi dal bilancio pubblico, che è difficile pensare che possa cambiare idea con la disinvoltura di Roosevelt e Kennedy.
Allacciamoci le cinture.
fabrizio@bigpond.net.au

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