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Era Trump: la grande rivincita di petrolio e carbone sulle rinnovabili

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L’energia di the donald

Era Trump: la grande rivincita di petrolio e carbone sulle rinnovabili

Beppe Grillo ha accolto con entusiasmo la notizia della vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane. «Questo è un vaffa generale» ha scritto il comico genovese sul suo blog facendo un parallelo tra il Movimento 5 stelle e il neo-presidente americano accomunati dall’essere entrambi anti-establishment ed entrambi bistrattati dai media. Sulla portata anti-sistema di Trump e Grillo le similitudini sono evidenti. Sui valori di riferimento qualche dubbio è lecito sollevarlo. Su un tema chiave come la politica energetica ad esempio le posizioni non potrebbero essere più distanti. Se Grillo ha fatto dell’energia pulita una delle sue bandiere Trump è agli antipodi.

Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha infatti più volte espresso la convinzione che il cambiamento climatico è un «inganno» e in campagna elettorale.

A differenza del suo predecessore Barack Obama, che si è speso molto sulla lotta alle emissioni inquinanti portando gli Stati Uniti a firmare, insieme ad altri 195 Paesi, un ambizioso piano sulla riduzione dei gas serra (l’accordo di Parigi Cop21), Trump ha dichiarato apertamente di voler rigettare l’intesa (con le conseguenze ambientali che si possono immaginare). Sulla base di queste convinzioni non c’è da stupirsi se la politica energetica della nuova amministrazione americana sarà agli antipodi rispetto a quella portata avanti dal suo predecessore.

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Nel programma di Trump alla voce energia si parla apertamente di liberare 5mila miliardi di dollari di riserve di shale oil e gas naturale e di porre fine alla moratoria sulle trivellazioni sul territorio federale. Una partita importante poi si gioca sul carbone. L’industria in questi anni ha vissuto una crisi senza precedenti. La produzione è crollata del 25% tornando ai livelli del 1986. C’è stata un’ondata di fallimenti e si stima che tra il 2008 e il 2012 si siano persi circa 50mila posti di lavoro. Ciò è avvenuto a causa di un generale calo della della domanda della materia prima (il cui prezzo non a caso è crollato del 30% negli ultimi 5 anni) determinato da vari fattori: il rallentamento dell’economia cinese, la concorrenza di combustibili più a buon mercato (come il gas naturale) e la politica energetica dell’amministrazione Obama che, tramite l’agenzia per la protezione dell’ambiente, ha introdotto regolamentazioni in favore dell’industria delle rinnovabili a scapito di settori più tradizionali come appunto il carbone.

Con la firma del Clean Power Plan (l’accordo di Parigi che Trump vuole rigettare), Obama si è impegnato a una drastica riduzione del consumo di carbone nei prossimi anni. Ora questo impegno è messo in discussione dalla vittoria di Trump cambia radicalmente questo scenario perché il nuovo inquilino della Casa Bianca in campagna elettorale si è speso molti in favore del salvataggio dell’industria del carbone. Attraverso l’eliminazione delle regolamentazioni introdotte da Obama e, verosimilmente, con la reintroduzione di sussidi all’industria del carbone.

In questo senso non c’è da stupirsi se le azioni del comparto hanno reagito con euforia alla notizia della vittoria di Trump con un balzo dell’8,99% per l’indice S&P500 Coal & Consumable Fuels. Le azioni della Peabody Energy Corporation, produttore di carbone che nei mesi scorsi ha dichiarato bancarotta, il giorno dopo il voto hanno guadagnato quasi il 50 per cento. E l’euforia ha contagiato anche i colossi minerari quotati a Londra come Glencore, BHP Billiton e Rio Tinto.

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