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Con Trump rischio protezionismo per i big dell’auto

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L’IMPATTO SULL’INDUSTRIA

Con Trump rischio protezionismo per i big dell’auto

(Bloomberg)
(Bloomberg)

Il settore auto globale è tra i più “esposti” all’eventuale attuazione della Trumponomics, vista la linea protezionista del miliardario in materia commerciale e le esplicite polemiche in campagna elettorale contro la Ford, nel mirino per aver trasferito la produzione di auto dagli Usa al Messico. A rischiare non sono solo i tre big di Detroit (fra i quali c’è anche Fiat Chrysler): anche i costruttori tedeschi temono il contraccolpo e hanno già lasciato trapelare la loro preoccupazione, mentre un’eventuale rottura con l’Iran potrebbe disturbare i piani delle francesi Renault e Peugeot, che dopo l’accordo sul nucleare sono pronte a riavviare la produzione nel paese.

Il tema del protezionismo e i ripetuti attacchi di Trump al Messico sono indubbiamente al centro delle preoccupazioni. Il presidente eletto ha minacciato di rinegoziare il trattato Nafta, e quando la Ford ha annunciato piani per spostare la produzione di piccole auto in Messico, aveva detto: «Non dovremmo permetterlo», minacciando di imporre tariffe fino al 35% sui veicoli importati. Nei primi 9 mesi del 2016 (si veda la tabella) gli Usa hanno segnato un deficit commerciale complessivo di oltre 140 miliardi di dollari nel settore auto, di cui 54 con il solo Messico. La bilancia con il Canada è invece quasi in equilibrio, mentre è in passivo significativo anche con il Giappone (37,5 miliardi) e la Germania (oltre 17); è però difficile immaginare ritorsioni significative in questo settore verso due Paesi che hanno investito somme enormi anche negli Usa creando decine di migliaia di posti di lavoro. Meno rilevante il deficit autoveicolistico con la Cina (5,5 miliardi) che pure è stata minacciata di tariffe punitive. Anche in questo caso, la rilevanza del mercato cinese - dove General Motors che contende a Volkswagen il primato di vendite - sconsiglierebbe di scatenare una guerra commerciale con Pechino. Quanto all’Italia, il nostro paese esporta verso gli Usa per poco meno di 4 miliardi di dollari a fronte di un import limitato.

La strategia di spostare la produzione di auto piccole verso il Messico, sostituendola in Usa con quella di Suv e pickup - prodotti a margini più elevati -, è adottata anche da Gm e Fiat Chrysler. Paradossalmente, proprio Ford è dei tre big quella che più produce in patria (78% del suo totale Nafta contro il 64% di Gm e il 51% di Fca) e meno in Messico (14% del totale Nafta contro il 24% di Gm e il 26% di Fca). Anche i giapponesi sono presenti a sud del Rio Grande (Nissan è numero uno sul mercato locale) e i big tedeschi - Audi, Bmw e Daimler - sono sbarcati in forze proprio in questi anni. Secondo Ihs Automotive, nel 2020 il Messico avrà una capacità produttiva pari a un quarto di tutti i veicoli venduti sul mercato Usa.

Alcuni potenziali effetti della presidenza Trump sul settore automotive sono comuni al resto dell’economia, come l’impatto valutario di questi giorni sul cambio dollaro-peso - che paradossalmente ha reso più convenienti le esportazioni dal Messico - o la speranza di una politica fiscale espansiva negli Usa, che ieri ha contribuito al forte rialzo dei titoli in Borsa (+7,8% per Fiat Chrysler a Milano, +3,2% per Ford e +5,4% per General Motors a Wall Street a un paio d’ore dalla chiusura).

A medio termine, pochi credono che Trump possa davvero tenere fede alle sue promesse elettorali più bellicose. Dei 79 miliardi di dollari che il settore auto messicano ha esportato verso gli Usa nei primi nove mesi del 2016, oltre metà non sono veicoli ma componenti destinati ad alimentare le fabbriche statunitensi; ciò significa che porre limiti al libero scambio sarebbe ancora più complicato e dannoso per il settore Usa, e rischierebbe di avere un impatto negativo proprio su quei posti di lavoro che intende proteggere. «Rompere questa rete di relazioni o ostacolarla con tariffe potrerebbe probabilmente a danni economici significativi e rivelarsi un esercizio difficile e doloroso» ha scritto in un report Arndt Ellinghorst, della Evercore Isi. Senza contare il rischio di misure di ritorsione da parte dei Paesi colpiti.

Il tema del protezionismo non è l’unico a turbare i sonni dei costruttori di auto. Trump ha minacciato di denunciare l’accordo sul nucleare con l’Iran, accordo che ha spianato la strada all’eliminazione delle sanzioni contro Teheran. I due gruppi francesi Psa Peugeot e Renault hanno già compiuto i primi passi per riavviare la produzione in loco; mesi fa il numero uno della prima, Carlos Tavares, aveva detto a Parigi di sperare che le parole di Trump sull’Iran non si traducessero in azioni, e aveva aggiunto comunque che «L’Iran è un’opportunità importante per noi e non intendiamo lasciarla cadere, visto che rispettiamo tutte le regole internazionali».

Le case automobilistiche americane e straniere hanno fatto in questi giorni buon viso a cattivo gioco, dicendosi pronte a lavorare con Trump: «Sosteniamo l’impegno del presidente eletto per la crescita economica - dice Gloria Bergquist, portavoce dell’Aam (l’associazione dei costruttori)- e siamo pronti a lavorare con lui e con il Congresso sui temi regolatori e dell’economia di carburante». Viste le posizioni espresse sul global warming è probabile che Trump porti avanti una politica su consumi ed emissioni inquinanti meno ambiziosa di quella di Obama.

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