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Dossier | N. (none) articoliSpeciale America al voto

Quale sarà il vero Donald

Abbiamo ascoltato un campanello d’allarme con la straordinaria rivoluzione che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca del 2016. È l’allarme di una classe media senza voce, avvilita, vilipesa, travolta dalla correttezza politica.

E’ anche l’allarme di chi sente la grandezza americana diminuire nel mondo. E la forza delle istituzioni svanire: La leaderhip è assente. E Trump ha vinto soprattutto grazie alla sua visione di leadership, chiara, istintiva, diretta, senza i fronzoli del benpensante; ha vinto la sua rivoluzione perché con promesse semplici, intuitive si è impegnato a cambiare l’equazione dell’immobilismo. Ora resta un interrogativo di fondo: quale sarà il vero Trump che andrà a sedersi nella poltrona dell’Ufficio Ovale. Quello che rappresentava «la rabbia della paura» di Shakespeare nei comizi aggressivi irriverenti fino all’insulto. O quello che abbiamo ascoltato nel discorso per il trionfo elettorale dell’altra sera, moderato, prudente, persino umile? Ci sarà uno spostamento al centro di Donald Trump?

Un messaggio ce lo ha dato l’altra sera: il suo continuerà ad essere un «movimento». Continuerà a operare nella tradizione dell’eroe solitario contro tutti, contro l’establishment della capitale, ora in Parlamento ora nella burocrazia delle agenzie federali. Con un paradosso che ancora non deve aver recepito fino in fondo. Dal 20 gennaio prossimo, giorno del suo insediamento e della sua inaugurazione, Trump diventerà a sua volta establishment. E si accorgerà di quanto scottante e difficile sarà la poltrona che andrà a occupare in un’era in cui la protesta, se delusa dalle promesse, si rivolta con la stessa rapidità con cui aveva dato fiducia.

L’incontro di oggi alla Casa Bianca fra Donald Trump e Barack Obama sarà un primo assaggio della realtà per Trump. Sarà un incontro civile, ma non sarà amichevole. Anche perché Trump confermerà a Obama che nel primo giorno del suo insediamento eliminerà la sua riforma sanitaria, gli accordi di Parigi sull’ambiente e l’accordo per il disarmo nucleare con l’Iran, i tre più importanti risultati storici della presidenza democratica. E su queste tematiche, possiamo esserne certi, si scateneranno proteste, ostruzionismi, contestazioni. E allora Trump si rifugerà nel ruolo che gli è sempre stato più congeniale, quello dell’outsider.

È da outsider, da primo outsider a conquistare la Casa Bianca in 240 anni di storia americana, che ha vinto. Ha scatenato la passione nei cuori, attenzione, nei cuori, non solo nella “pancia”, di “patrioti” della grande America. Ai suoi comizi, i più affollati che ho mai seguito in molte campagne elettorali, non c’erano solo scalmanati, c’erano molte normalissime famiglie con i loro figli dell’America rurale. Con Trump, sono stati anche loro ad aver conquistato la presidenza di quella che resta la più grande potenza mondiale.

Che questo potesse succedere davvero è sfuggito a tutti, agli analisti, ai mercati, ai giornalisti, al vostro corrispondente, persino ai compagni di partito del candidato che si è aggiudicato la nomination repubblicana. Abbiamo sbagliato. Ma chi confonde l’errore di interpretazione per un “wishful thinking” sbaglia a sua volta. Non c’è mai stato complotto, piuttosto c’è stata una rivoluzione nella rivoluzione: nell’evolversi dei risultati elettorali, stato dopo stato abbiamo anche assistito alla più grande manifestazione di “disintermediazione” nella storia moderna della comunicazione. Un altro grande risultato del personaggio Trump, su cui rifletteremo a lungo.

Ora dobbiamo augurarci tutti che Trump riesca in questa sua missione di cambiamento. Anche perché, se fallisse, il rischio potrebbe essere davvero quello di una rivoluzione cruenta al posto di quella democratica che abbiamo seguito nella notte di martedì una notte tesa, drammatica ma densa di tutte le emozioni della storia.

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