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La Bce pronta a prolungare il Qe

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la riunione di giovedì

La Bce pronta a prolungare il Qe

Un quantitative easing più lungo. L’esito della riunione di dicembre della Bce sembra scontato. Nulla è sicuro in realtà: il governatore francese François Villeroy de Galhau ha recentemente rivelato di preferire un approccio molto cauto, senza fretta. Decisamente incerti sono invece i dettagli: quanto tempo ancora dureranno gli acquisti di titoli? Sei mesi in più (a partire da fine marzo) e quindi fino a settembre 2017? Nove, fino a dicembre? E, soprattutto, quale sarà l’ammontare mensile? Oggi sono 80 miliardi, dei quali circa 60 in titoli pubblici, ma non è escluso - lo stesso presidente Mario Draghi, in un’intervista a El País non ha respinto l’ipotesi - che si possa passare a 60 miliardi. Sarebbe però un segnale preciso: il qe si avvia, sia pure molto lentamente, verso la fine.

È il segnale giusto da mandare ai mercati? Dal punto di vista della Bce forse no. Potrebbe sembrare quasi una resa, mentre la situazione sul fronte dell’inflazione non è ancora migliorata. L’indice dei prezzi di Eurolandia è rapidamente accelerato dal - 0,2% annuo di aprile al +0,6% di novembre; ma non è una vera reflazione, non riguarda in modo generalizzato il complesso dei prezzi.

È il segno della fine delle rapide flessioni del costo dell’energia, ma la core inflation - che esclude le voci più volatili e meno controllabili attraverso la politica monetaria - resta ferma allo 0,8% annuo e i prezzi dei beni industriali continuano a crescere del solo 0,3% annuo. È vero però che i prezzi alla produzione interni, anche escludendo l’energia, sembrano aver terminato la lunga flessione e sono ora stabili: qualche pressione, su questo fronte, potrebbe ora cominciare a manifestarsi. È troppo presto però perché una banca centrale come la Bce possa pensare di aver indirizzato i prezzi su un percorso che porti l’inflazione verso il suo obiettivo, «al di sotto ma vicino al 2%».

Continuano inoltre a calare, in Eurolandia, i prezzi alla produzione non domestici e questo fenomeno segnala quanto l’attuale fase di bassa inflazione sia anche legata ai prezzi sui mercati internazionali e quindi, probabilmente, a un eccesso globale di offerta, che la Banca centrale europea non può certo risolvere. Non mancano inoltre, nell’area euro, segnali inquietanti sul fronte del credito, che sono la cinghia di trasmissione della politica monetaria verso l’economia reale. La situazione è rapidamente migliorata, a partire da marzo 2014, con una forte accelerazione che ha interrotto la flessione dei prestiti alle imprese, ma la grande spinta si è poi fermata, e il totale dei prestiti ha fortemente rallentato, a livelli di crescita relativamente bassi.

Lo stesso rallentamento si è verificato, ma stabilizzandosi a livelli di crescita più ragionevoli (ma comunque bassi rispetto alle medie storiche) per il credito al consumo e il credito per l’acquisto di case. La situazione delle banche del nostro paese, la terza economica dell’area, appare qui rilevante anche per la politica monetaria. La crescita economica resta quindi relativamente lenta, e nell’ultimo trimestre, quello estivo, ha colpito l’andamento degli investimenti, che si sono fermati al livello della precedente primavera. Il presidente Mario Draghi, del resto, ha sempre insistito sul fatto che per spingere l’economia occorra anche una corretta politica fiscale, rispettosa del Patto di stabilità ma allo stesso tempo orientata alla crescita: più investimenti produttivi (ma la scelta non è per nulla facile), meno tasse, meno spese correnti. Una miscela politicamente non facile da ottenere.

Tutto questo lascia pensare che la Bce abbia un forte incentivo a prolungare il quantitative easing. Importanti saranno quindi anche le proiezioni dello staff, che saranno pubblicate alla fine del consiglio, per capire - pur tenendo presente i limiti di queste previsioni - dove stia andando Eurolandia e quanto sia appropriato l’orientamento della politica monetaria.

L’unico fattore che può frenare la Bce è quello “politico”, interno. È noto che la Bundesbank e i tedeschi siano contrari alle attuali forme, estreme, di politica monetaria, non senza qualche ragione. Potrebbero raccogliere, nel tempo sempre più consensi. Politiche ultraespansive forniscono un incentivo ai governi (e agli attori economici coinvolti) per rinviare sine die le necessarie riforme, possono prolungare la vita di imprese incapaci di sopravvivere alla concorrenza e possono alterare le quotazioni di mercato. È l’equilibrio tra questa impostazione e quella, per così dire, “del presidente” che definirà il futuro del quantitative easing.

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