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«Border tax»: ecco l’arma letale di Donald Trump

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protezionismo USA

«Border tax»: ecco l’arma letale di Donald Trump

Il presidente Donald Trump e, in secondo piano, il repubblicano Paul Ryan, presidente della Camera e promotore della riforma fiscale
Il presidente Donald Trump e, in secondo piano, il repubblicano Paul Ryan, presidente della Camera e promotore della riforma fiscale

Il nome è burocratico e inoffensivo: border adjustment tax. Imposta di aggiustamento alla frontiera, o in breve tassa di frontiera. Bat, che per assonanza e agli occhi dei suoi fautori sembra molto vicina alla Vat, l’Iva comune in Europa. E invece minaccia di essere una della armi più taglienti - e i critici accusano a doppio taglio - nell’arsenale allo studio della nuova amministrazione americana per riscrivere le regole e la realtà del commercio internazionale e dei rapporti economici tra i partner.

Ha l’attrazione delle soluzioni semplici, almeno all’apparenza: una tassa del 20% su tutte le merci che arrivano dall’estero negli Stati Uniti. Questo, per i sostenitori, creerebbe un incentivo a produrre nel Paese e un chiaro disincentivo a spostare attività o quartieri generali di aziende oltre-confine. Anche perché verrebbe automaticamente accompagnata da sgravi per l’esportazione, che diventerebbero esentasse grazie alla possibilità per le aziende di dedurre queste entrate dall’imponibile e all’eliminazione delle imposte sui profitti esteri. Le risorse rastrellate - stimate 1.200 miliardi di dollari in dieci anni, cento miliardi l’anno - sarebbero oltretutto in grado di finanziare altri sgravi fiscali voluti dalla Casa Bianca e dalla maggioranza repubblicana al Congresso, a cominciare dal taglio delle aliquote d’impresa al 20% o 15% dall’attuale 35 per cento. Un piano, questo, centrale per le politiche economiche che Trump ha promesso di svelare nei loro contorni «fenomenali» entro tre settimane.

Aumentare i costi dell’import...
Una decisione se includere o meno la finora poco conosciuta e discussa “border tax” è diventata così urgente. Al momento è brandita dai repubblicani alla Camera, notoriamente i più radicali e ideologici, e in particolare il presidente della Commissione Stanziamenti Kevin Brady: l’ha presentata fin dallo scorso giugno nell’ambito di un piano battezzato Better Way, una via migliore. Ma lo sforzo in atto è adesso quello di persuadere la Casa Bianca a sposarla nell’ambito della crociata per “Fare di nuovo grande l’America”.

L’amministrazione, in un sintomo dell’alta posta in gioco, aveva inizialmente dato segni di apertura sulla Bat durante la recente faida con il Messico: aveva ipotizzato l’imposta per far pagare al vicino Paese il costo del muro anti-immigrati. Ma aveva poi rapidamente fatto marcia indietro. Il neopresidente, pur minacciando tariffe e sanzioni a destra e a manca contro partner definiti scorretti e con surplus commerciali, ha definito il meccanismo «troppo complicato» e ha nicchiato. Né ha parlato del delicato capitolo durante il suo ultimo vertice commerciale, nei giorni scorsi, con il premier canadese Justin Trudeau.

L’aggettivo complicato va in realtà letto anzitutto come «controverso». La border tax, infatti, spacca lo stesso partito repubblicano, i suoi intellettuali e la Corporate America. Molti economisti conservatori e esponenti di passate amministrazioni - dall’ex consigliere di Ronald ReaganMartin Feldstein alle fondazioni dei fratelli conservatori Koch fino al guru liberista Steve Forbes - hanno denunciato l’idea come irrealistica nelle speranze e pericolosa e dannosa - protezionista anche se non è formalmente un “dazio” - in pratica. E altrettanto hanno fatto numerose grandi aziende, a cominciare da retailer del calibro di Wal-Mart, che vivono grazie all’import o a sofisticate catene internazionali di fornitori.

L’obiezione è a sua volta presto riassunta: l’ipotesi che la tassa non incida sulla competitività delle imprese importatrici è predicata sulla teoria che generi un rafforzamento del dollaro grazie allo stimolo che darebbe all’export, compensando i rincari e traducendosi in un impatto neutrale sull’interscambio. Lo stimolo assomiglierebbe però a un sussidio di dubbia validità. E l’ex candidato presidenziale repubblicano Forbes ha apostrofato la previsione sul dollaro come una fantasia, che immagina di poter scommettere sull’andamento di colossali piazze valutarie influenzate da mille variabili. Il dollaro per compensare una Bat del 20% dovrebbe salire almeno del 25%, scatenando drammi per la stabilità di mercati emergenti e non solo.

...e introdurre forti sgravi alle esportazioni
I ricavi stimati dall’imposta, avvertono gli scettici, evaporerebbero davanti ai danni, per consumatori, aziende e crescita. L’imposta finirebbe per essere comunque passata agli americani e i suoi costi ridurrebbero profitti e i posti di lavoro. «Una tassa che aumenta il prezzo della birra Corona mi pare una pessima idea» ha ironizzato il senatore repubblicano Lindsey Graham sottolineando l’impatto che avrebbe su quei ceti popolari dimenticati evocati da Trump. Al Senato la Bat, qualora passasse al vaglio di Trump nella sua versione più drastica, potrebbe trovare uno stop.

Anche la Corporate America - a rendere più teso il dibattito - è tuttavia divisa sulla misura. Alle aziende che si contrappongono alla border tax rispondono influenti marchi che la giudicano assai meno preoccupante. Anzi, a suo sostegno si è espressa una colazione di almeno 21 gruppi, soprattutto industriali, da Boeing e Caterpillar, da Dow Chemical a Pfizer, che dal nuovo regime fiscale d’insieme invocato da Trump contano di emergere avvantaggiati.

La tesi è che la border tax, a conti fatti e spogliata da eccessi ideologici, diventerebbe né più né meno che una via americana alle imposte sul valore aggiunto comuni in decine di altri paesi. Ma l’argomento viene respinto da chi evidenzia che una Vat è applicata a tutte le vendite mentre la Bat sarebbe troppo discriminatoria per l’import, tassato sull’intero valore del prodotto mentre il made in Usa, per la struttura di imposta aziendale che avrebbe la Border adjustment tax, potrà dedurre dal valore tassato il costo del lavoro. I profitti a fini fiscali sarebbero infatti ridefiniti come vendite domestiche meno costi domestici. La Bat imporrebbe alla fine una tassa sulla base del luogo dove il prodotto viene consumato, non dove è prodotto, fedele al concetto di destination-based cash flow tax. Dal 1997 il padre dell’idea, nata per combattere l’offshoring, è considerato Alan Auerbach dell’Università della California.

Ma soltanto adesso ha trovato udienza presso l’America First di Donald Trump e dalle stanze dell’accademia potrebbe entrare di prepotenza negli uffici, nelle fabbriche e nelle case degli americani con esiti e rischi tutti da verificare.

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