PARIGI. Finalmente, il voto. Dopo quasi sei mesi di una campagna elettorale troppo lunga (iniziata sostanzialmente in novembre, con l'ufficializzazione della candidatura di Emmanuel Macron e le primarie della destra), oggi si è votato e alle 20 si sono ciusi i seggi di quella che per la “monarchia repubblicana” francese è “la madre di tutte le elezioni” e sulla quale sono eccezionalmentre rivolti gli occhi di tutta l'Europa e in parte del mondo intero (sicuramente i mercati finanziari).
Perché le tante sorprese, i tanti colpi di scena, i tanti eventi esterni alla politica (gli “affaires” giudiziari di François Fillon, ma anche il terrorismo) hanno fatto sì che si arrivi al momento di mettere la scheda nell'urna in una situazione di grande incertezza quanto all'esito del voto, come mai era successo.
E poi c’erano gli astensionisti (potenziali) e gli indecisi. In entrambi i casi a livelli inediti. Sempre secondo le rilevazioni della vigilia, il 27-28% degli aventi diritto aveva deciso di disertare i seggi: il dato più alto di sempre (la media storica al primo turno di una presidenziale è intorno al 20%), con la sola, preoccupante, eccezione del 2002 (28,4%). Quando al secondo turno (poi umiliato dal “fronte repubblicano” che si compattò sul nome di Jacques Chirac) andò l'estrema destra di Jean-Marie Le Pen.
Anche se alcune certezze, in realtà, sembrano essersi ormai delineate. Ota si hanno i due candidati che andranno al ballottaggio, Macron e Le Pen. In attesa di vedere gli endorsement e le alleanze pro o contro ciascun sfidante, si possono già individuare dei dati di fatto. Che sono tali da suscitare una certa inquietudine anche al di fuori della Francia. La prima è che il partito di maggioranza nel Paese è quello dei populisti: io 40%, se sommiamo le medie di Marine Le Pen e del “rivoluzionario” della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon.
La seconda è che il partito socialista è praticamente scomparso: il risultato di Hamon (sotto il 7%) è il peggiore di sempre per il Ps, che per la terza volta dal 1958 sarà assente dal ballottaggio. L'ultima certezza, in qualche modo di conseguenza, è l'impressionante crollo di consensi dei due partiti storici del bipolarismo francese, frutto della evidente voglia di rinnovamento espressa dall'opinione pubblica: destra e socialisti, secondo i sondaggi, sono al 27%, quando il loro “score” complessivo è sempre stato tra il 44% e il 76% (ancora una volta con l'eccezione del 2002, quando comunque ottennero il 36%).
Per tornare invece alle incertezze, non si può escludere la possibilità (sia pure molto ridotta) che a presidere la Francia sia qualcuno che vuole chiudere le frontiere (anche commerciali), uscire dall'euro e dall'Europa. Ma soprattutto, e questa è una possibilità molto più concreta, potremmo quasi dire una probabilità, che il Paese sia ingovernabile. Non tanto sulla base dell'esito delle presidenziali, quanto di quello delle legislative che seguiranno, a metà giugno.
Al di là delle immaginabili tensioni sociali, lo sarebbe sicuramente con una vittoria della Le Pen. Che userà probabilmente le prossime due settimane per rinunciare di fatto all'obiettivo di un abbandono dell'euro (facendo un passo verso l'elettorato della destra “istituzionale”), conservando invece del suo programma l'uscita da Schengen e la lotta all'immigrazione (i veri temi che stanno a cuore al suo, di elettorato). Poiché è abbastanza impensabile che riesca a ottenere una maggioranza parlamentare (289 seggi), dovrebbe fare i conti con un'Assemblée nationale e un Governo ostili, che ne paralizzerebbero l'azione.
Ma lo stesso problema, sia pure in uno scenario del tutto diverso, potrebbe avere Macron. È vero che storicamente (con la sola eccezione del 1988) i francesi hanno sempre fornito una maggioranza al presidente. Ma com'è possibile, si chiedono in molti a giusto titolo, che l'ex ministro dell'Economia riesca a far eleggere almeno 289 deputati con un partito creato appena un anno fa? Il voto locale non ha nulla a che vedere con quello nazionale e ancor meno con quello presidenziale. I fattori che entrano in gioco sono altri, a partire dal radicamento territoriale. Macron potrebbe quindi ritrovarsi con una maggioranza composita, di coalizione, con la quale andare di volta in volta a cercare un compromesso.
Il politologo Dominique Reynié non ha comunque dubbi: «Alla fine i francesi, più conservatori di quanto dicono i sondaggi, voteranno con il pensiero rivolto alla tasca. È una popolazione ricca, con 4mila miliardi di patrimonio. Non correranno rischi con un salto nel buio».
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