Questa è una settimana dove si decidono le sorti del Medio Oriente: come orientarsi in mezzo a rivelazioni – vere, false o inverificabili – sulla Siria, l'Isis e i rapporti Casa Bianca-Russia, che provengono dall'America di Trump?
La campagna per le presidenziali di venerdì 19 in Iran è diventata infuocata e sarà al centro del viaggio del presidente americano Donald Trump in Medio Oriente – con tappa in Arabia Saudita e Israele – che oggi incontrerà anche il leader turco Tayyip Erdogan, Paese membro della Nato, il quale, per limitare i danni della guerra persa in Siria contro Assad, fa la diplomazia del “pendolo” tra Russia e Iran e si oppone alla decisione Usa di sostenere militarmente i curdi siriani nella battaglia di Raqqa contro il Califfato.
In poche parole gli Stati Uniti devono decidere se contrastare l'influenza iraniana nella regione, come chiedono gli alleati sauditi e israeliani, studiando nuove sanzioni, oppure accettare il processo avviato con l'accordo nucleare firmato nel 2015 durante la presidenza Obama, più volte definito da Trump un'intesa “orribile”.
Le mosse americane avranno un'influenza anche sulle elezioni iraniane. Il presidente uscente Hassan Rohani, un conservatore moderato, difende naturalmente l'accordo mediato dal suo ministro degli Esteri Javad Zarif mentre gli ultra-conservatori lo attaccano a tutto spiano, accusandolo di avere “svenduto” l'Iran. In pratica i radicali della repubblica islamica hanno la stessa opinione, per motivi ovviamente contrapposti, dei repubblicani americani.
Il fronte dei duri e puri si è compattato: il sindaco di Teheran, Mohammad Baqer Qalibaf, ha ritirato la propria candidatura invitando i suoi sostenitori a votare per il candidato conservatore Ebrahim Raisi, concentrando così lo schieramento che si oppone all'attuale presidente moderato che ha invece ottenuto il sostegno dell'ex presidente Mohammed Khatami, uno dei leader dei riformisti. Vista dall'interno, la scelta richiama in un certo senso quella degli elettori francesi tra Macron e la Le Pen. In realtà i due candidati sono entrambi dei religiosi, espressione del sistema sorto dalla rivoluzione islamica del 1979, anche se è evidente che Rohani, pure con diverse delusioni, rappresenta i riformisti e i fautori del dialogo mentre Raisi è appoggiato dai pasdaran, dall'ala dura e, si dice, anche dalla Guida Suprema Alì Khamenei.
Trump non è l'arbitro di queste elezioni ma, se vogliamo, un grande elettore che ha scelto di andare a Riad proprio il giorno in cui si vota in Iran. Il suo scopo è quello di riaffermare il ruolo Usa in Medio Oriente, appannatosi durante l'era Obama, e costruire un asse di alleanze con gli Stati arabi e con Israele, per contenere quello che ritiene l'avversario e il pericolo principale, l'Iran sciita; anche se, nonostante le promesse elettorali, non è arrivato a denunciare l'accordo sul nucleare con Teheran sapendo che sarebbe rimasto totalmente isolato rispetto agli altri firmatari (Europa, Russia, Cina e Germania).
Per costruire questo asse anti-Iran tra Israele e Arabia Saudita si parla di un nuovo negoziato con i palestinesi, con l'evidente scopo di legittimare l'alleanza tra Tel Aviv e Riad. E per invogliare Trump a stringere il cerchio intorno all'Iran e agli sciiti nella regione – compresi i ribelli Houthi che Riad bombarda in Yemen – i sauditi offriranno al presidente americano 40 miliardi di dollari di investimenti nei programmi infrastrutturali americani voluti proprio da Trump. Non c'è migliore carburante di questo per fare decollare un “nuovo grande Medio Oriente”.
© Riproduzione riservata