In un Paese che per decenni è stato guidato da una generazione di ultrasettantenni, se non ottuagenari, il cambio di rotta è a dir poco significativo.
Perché la nomina di Mohammed bin Salman a principe ereditario, annunciata ieri dal padre, il monarca saudita Salman, potrebbe finalmente scuotere la più ricca e forse apatica economia del mondo arabo.
Mohammed, 31 anni, non è solo un giovane molto ambizioso, a volte aggressivo sulla politica estera (è lui a esercitare il comando nella deludente campagna saudita in Yemen) , ma è anche un principe che crede fermamente nella sola ricetta possibile per rilanciare l’economia saudita e guarirla dal morbo della petro-dipendenza: il processo di privatizzazione e la diversificazione dell’economia.
Mohammed è dunque l’uomo scelto per rivoluzionare il Paese più conservatore del mondo arabo. È lui, mostrando una buona dose di coraggio, ad aver lanciato l’anno scorso il grande piano “Vision “2030”. Le cui priorità sono la riduzione della presenza dello Stato nell’economia, il sostegno al settore privato e la creazione di posti di lavoro per i giovani sauditi.
D’altronde i tempi delle vacche grasse, quando i prezzi del greggio si mantenevano sopra i 100 dollari per anni e la monarchia saudita poteva galleggiare su una mare di petrodollari, sembrano definitivamente tramontati. Il crollo del barile, di cui Riad è stata l’artefice nel vertice Opec di fine 2014 con la decisione di non tagliare la produzione,si è ritorto drammaticamente sui conti pubblici sauditi.
Dai generosi surplus che arrivavano senza il minimo sforzo, la monarchia si è ritrovata con deficit di bilancio sempre più ingombranti (nel 2015 quasi 100 miliardi di dollari, 79 nel 2016). Per non ricorrere a soluzioni drastiche, azzerando i sussidi e i privilegi, i vecchi monarchi hanno preferito attingere generosamente dalle gigantesche riserve monetarie in valuta pregiata. Erano ben più di 700 miliardi di dollari nel 2011. Ora, secondo le indicazioni dell’Autorità monetaria dell’Arabia Saudita, sono scese in maggio a 495 miliardi. Una drammatica erosione a cui occorre trovare rimedio. Anche se le più ottimistiche previsioni del ministero saudita delle Finanze prevedono un aumento del Pil del 2% nel 2017, sempreché vengano attuate riforme chiave incluse nella strategia “Vision 2030”, il tasso di crescita del Pil dovrebbe ulteriormente contrarsi nel 2017 a meno dell’1% (per Forbes solo lo 0,4% per alcuni analisti dello 0,2), il dato più basso da almeno 4 anni. E per la prima volta da 11 anni, in marzo e in aprile, i prestiti del settore bancario al settore privato si sono ridotti.
Per un Paese che ricava dalle vendite di greggio il 90 % dell’export complessivo era prevedibile. Ora, tuttavia, è arrivato il momento di avviare in modo deciso quelle riforme strutturali da tanto tempo annunciate ma mai portate a termine con determinazione. Dopo tre anni consecutivi con il petrolio sotto i 50 dollari (media), e tre anni di crescenti deficit di bilancio, anche la monarchia saudita non ha potuto fare altro che imitare i Paesi occidentali: prendere la via della “spending review”. Con una vigorosa sforbiciata ai salari ministeriali, un drastico taglio delle indennità, fino alla cancellazione dei bonus. Un’eresia per un esercito di dipendenti pubblici - due terzi della forza lavoro - abituato a generosissimi benefit.
Ma è ancora troppo poco.
Il prezzo del petrolio resta debole. La grande abbondanza dell’offerta mondiale e le assai voluminose scorte americane suggeriscono che difficilmente i prezzi si risolleveranno sui valori desiderati dai Paesi dell’Opec. Il nuovo principe ereditario si troverà infine con una patata bollente tra le mani: la
privatizzazione della Saudi Aramco,la più grande compagnia petrolifera mondiale la cui capitalizzazione potrebbe valere anche 2mila miliardi di dollari. Riad intende vendere sul mercato, con un’offerta pubblica iniziale, una quota del 5% già il prossimo anno.
Ma sta anche pianificando investimenti e operazioni importanti in diversi settori. Il Public Investment Fund, il fondo sovrano non troppo sensibile agli investimenti all’estero, sta investendo 45 miliardi di dollari in una partnership con la giapponese SoftBank al fine di lanciare un fondo tecnologico. L’anno scorso ha anche sborsato 3,5 miliardi di dollari per una quota di Uber.
Nel 2011, sull’onda delle primavere arabe, l’anziano monarca re Abdallah era riuscito a contenere il malcontento popolare con un pacchetto di welfare all’araba da oltre 100 miliardi di dollari a favore delle fasce più povere. Misure che tuttavia erano solo delle panacee. Allora il denaro non mancava. Oggi anche l’Arabia è davanti al bivio: la recessione o la ripresa. Per rilanciare l’economia non ci sono molte alternative: occorre austerità – termine sconosciuto in questo vasto Paese del Golfo – e vere riforme strutturali. È ancora presto per dirlo, ma il giovane Mohammed bin Salman ha le carte in regola per guidare il Paese lungo questa difficile e finora sconosciuta strada.
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