Proprio mentre il fisco francese presenta il conto a Microsoft per i proventi da pubblicità online(600 milioni secondo la rivista l’Express, dopo il miliardo contestato mesi fa a Google), i quattro leader della Ue – Gentiloni, Merkel , Macron, Rajoy – pensano a un paper comune da portare al prossimo Consiglio europeo di Tallinn del 15 settembre, centrato guarda caso sulla tassazione digitale. L’Italia non si presenta a mani vuote, perché nel paper potrebbe confluire l’ipotesi allo studio del Mef di introdurre una tassazione “piatta” sugli utili prodotti dai giganti del web con la pubblicità: una “cedolare secca” sui business prodotti in Italia.
Le prime quattro economie continentali hanno comunque deciso che, dopo aver delegato per anni la “perequazione digitale” a magistrati e agenzie fiscali (su questo terreno l’Italia è stata di esempio per tutti) è l’ora di mettere in campo la politica per bilanciare lo strapotere, e gli stra-redditi, delle solite over-the-top.
Se finora si è proceduto in ordine sparso, dalla “Google tax” inglese del 2015 (25% su giri d’affari superiori a 10 milioni) fino alla web tax italiana (che in realtà è una forma di compliance volontaria per fatturati over 50 milioni), Italia, Germania, Francia e Spagna hanno capito che il problema si risolve (forse) con una fitta rete di regole comuni e, soprattutto, omogenee. Regole che, in attesa dell’Ocse – pronta sul pezzo non prima del 2020, con le sue proposte finali – devono accelerare sul binario forte della Ue, introducendo un doppio regime (una «cooperazione rafforzata») che punti perlomeno in prima battuta sui mercati più redditizi del vecchio continente.
Indiscrezioni sulla “web tax dei quattro” non girano ancora, anche perché il versante politico nasce in queste ore, ma è evidente che il campo di gioco dovrà essere sia quello tradizionale della «stabile organizzazione» – utilizzata per esempio da Gdf, Entrate e Procura di Milano per recuperare finora oltre 700 milioni dai soliti noti – e/ o quello digitale vero e proprio dei click e dei bite in transito sulle reti nazionali.
Questa seconda via, già sperimentata dall’India (si veda il corsivo qui sotto) è anche nelle mire del governo australiano, che ha intenzione di estendere la tassa sui beni e servizi del 10%, (Goods and Service Tax, Gst), l’equivalente locale dell’Iva anche ai “beni immateriali” come contenuti digitali, giochi e software, fra cui anche i servizi di piattaforme di streaming online. La norma era passata a maggio dello scorso anno come parte della legge fiscale del 2016, ora “vira” anche sul mondo digitale.
La web tax è al centro in questi giorni anche del Congresso mondiale dei fiscalisti in svolgimento a Rio de Janeiro (Ifa 2017), presenti oltre 1.600 delegati. I rappresentanti dell’Ocse hanno spiegato che l’azione sulla digital economy non ha raggiunto il consenso degli stati in materia Iva (proprio dove sta agendo l’Australia), ma l’attuazione dei Beps (il programma Base erosion profit shifting) sta contrastando la pianificazione fiscale aggressiva delle grandi multinazionali. In questo contesto è però opportuno monitorare, e cioè possibilmente raffreddare, le iniziative unilaterali degli Stati e far emergere proposte alternative. Il G20 ha dato mandato per illustrare soluzioni concrete nel 2020 e produrre nel frattempo un interim report entro la primavera del 2018.
Nelle more, la strada del contrasto all’elusione deve passare attraverso l’espansione del collaudato concetto di stabile organizzazione (Permanent Establishment) e nuove definizioni, come la Significativa presenza economica (Sep), vigilando sulle riallocazioni dei profitti, ovvero infine valutando soluzioni ponte come misure di perequazione fiscale e/o prelievi sulle vendite elettroniche.
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