La risposta italiana alla lettera europea di venerdì sulla manovra arriverà tra domani e martedì, e ribadirà la correttezza dei calcoli governativi sulla correzione strutturale prodotta dalla legge di bilancio. Le richieste della commissione, dall’altro lato, torneranno utili anche per rafforzare l’argine contro le pressioni parlamentari in arrivo sulla spesa. A motivare la fiducia che si respira a Roma sull’esito del confronto con la commissione sono due ordini di fattori. Quelli tecnici, a partire dai calcoli italiani sull’«output gap» (la differenza fra crescita potenziale e reale) che misura il deficit strutturale e quindi la correzione necessaria; e quelli politici, fondati sul fatto che la strada imboccata dalla commissione nell’esame dei conti italiani è lontana dalle ipotesi più dure.
L’esecutivo comunitario potrebbe infatti spingersi fino a una bocciatura secca del progetto di bilancio inviato da Roma a metà ottobre, ma la stessa lettera firmata dal vicepresidente della commissione Valdis Dombrovskis e dal commissario agli Affari economici Pierre Moscovici indica una direzione diversa: in discussione non c’è la riduzione a tre decimali di Pil (poco più di 5 miliardi) della correzione del deficit strutturale, ma i criteri adottati per il calcolo. E il giudizio finale (atteso per il 22 novembre) terrà conto anche delle esigenze della crescita oltre che della sostenibilità dei conti. Proprio il ritmo più vivace del previsto raggiunto dal Pil, del resto, è alla base del primo miglioramento dal 2002 ottenuto venerdì dal rating italiano, per di più nelle pagelle di Standard & Poor’s che non alzava i propri giudizi dal 1998. Arriva da lì un’altra carta politica importante per l’Italia da giocare sui tavoli europei. «Con il rating non si mangia - ha commentato ieri il premier, Paolo Gentiloni - ma è incoraggiante». Secondo Gentiloni la ripresa c’è ma restano «le ferite della crisi», mentre sul fronte dell’occupazione «c’è la possibilità, se ci lavoriamo seriamente, con ostinazione, anche nel nuovo contesto europeo e tecnologico, di una ripresa con lavoro non senza lavoro».
Le controdeduzioni che il ministro Pier Carlo Padoan e i tecnici dell’Economia stanno preparando poggiano su tre pilastri. Il primo è rappresentato dal calcolo italiano dell’output gap, oggetto da anni di tensioni fra Roma e Bruxelles, e sul punto si giocano poco meno di 1,8 miliardi, cioè un decimale di Pil. L’indicatore è essenziale per calcolare lo sforzo finanziario prodotto dalle manovre nazionali. In sintesi, l’output gap misura l’effetto degli ostacoli che non permettono a un Paese di sviluppare in pieno il proprio potenziale di crescita: se la crescita reale è lontana da quella potenziale, le regole europee si ammorbidiscono, e concedono una correzione inferiore del deficit. Le matrici Ue, però, si differenziano da quelle italiane soprattutto nel calcolo della forza lavoro potenziale (che dipende da disoccupazione e inflazione salariale), e sulla base di questo valutano in due decimali di Pil, anziché nei tre richiesti, la correzione al deficit portata dalla manovra. Già in primavera Padoan aveva chiesto di rivedere il meccanismo, insieme ai ministri di Francia, Spagna e Portogallo: gli stessi Paesi che come Roma hanno ricevuto l’altro ieri le obiezioni europee (insieme al Belgio).
Al centro del confronto c’è poi la riduzione della spesa primaria, che nelle richieste della commissione andrebbe tagliata di almeno 2,5 miliardi (1,4% del Pil). Alla voce «spending» vera e propria il progetto di bilancio italiano mette solo un miliardo, mentre altri 2,2 sono a carico della rimodulazione dei trasferimenti alle aziende pubbliche, ridotti nel 2018 ma recuperati negli anni successivi. Ancora una volta, però, il risultato finale dipenderà anche dalle spese «eccezionali», che in quanto tali devono uscire dai calcoli strutturali: la prima voce è rappresentata dalle uscite per la gestione dei migranti, che secondo i dati inviati dall’Italia alla Ue supererà nel 2018 la soglia dei 5 miliardi (si veda Il Sole 24 Ore del 18 ottobre) contro i 4,3 miliardi raggiunti quest’anno: è vero che gli arrivi sono diminuiti, spiega l’Italia, ma cresce il ruolo delle strutture di accoglienza, che a settembre hanno avuto in carico 193mila persone contro le 176mila assistite in media nel 2016.
A questi due terreni si aggiunge l’esame sul carattere «strutturale» delle maggiori entrate previste da legge di bilancio e decreto fiscale, dai 2,15 miliardi di miglioramento del saldo prodotto dal rinvio dell’Iri al miliardo aggiuntivo atteso dalla riapertura della rottamazione delle cartelle. Il precedente più vicino è rappresentato dalle «Raccomandazioni specifiche» inviate da Bruxelles in primavera. Allora la cosa si risolse con la “manovrina” correttiva, ma oggi il governo punta a confermare l’impianto della manovra: in un «sentiero stretto» fra le richieste di rigore dell’Europa e quelle di nuova spesa dei partiti.
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