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Nei paradisi fiscali il 10% del Pil del mondo ma nella «blacklist» c’è solo Trinidad e Tobago

Una spiaggia nelle isole Bermuda (Epa)
Una spiaggia nelle isole Bermuda (Epa)

Un primo effetto i Paradise Papers lo hanno ottenuto. I ministri delle Finanze dell'Unione europea corrono ai ripari dopo la nuova inchiesta giornalistica sui paradisi fiscali e domani discuteranno dell'introduzione di una blacklist europea dei paesi non collaborativi. L'argomento è stato aggiunto all'ultimo momento nell'agenda del meeting, dopo che da tempo si cerca di trovare un accordo sull'introduzione di una “lista nera”. Lo scetticismo di alcuni paesi come il Lussemburgo, Malta e l'Irlanda ha finora impedito il raggiungimento di un'intesa ma la pressione internazionale scaturita dall'inchiesta ha riportato all'ordine del giorno il problema delle ricchezze sottratte ai governi della Ue.

Nei paradisi fiscali il 10% del Pil mondiale
Difficile calcolare quanti soldi siano stipati nel paradisi fiscali. Secondo i calcoli dell'economista francese Gabriel Zucman, visiting professor all’università di Berkeley e autore del libro “La richesse cachée des nations”, nei centri finanziari offshore sono ammassati 7,8 trilioni di dollari, cioé il 10% del Pil mondiale. O l'8% di tutte le ricchezze finanziarie private. Ma i “tax havens” sono un buco nero e stime ufficiali non ne esistono. Così, il Boston Consulting Group calcola che le ricchezze investite nei centri offshore ammontino a 10 trilioni di dollari mentre l'ex consulente di McKinsey, James Henry, alza la stima a 32 trilioni di dollari, pari a due volte il Pil degli Stati Uniti. Si parla sempre e solo di ricchezze finanziarie. Ville, yacht, aerei, gioielli e opere d'arte sono esclusi dal calcolo.

Per questo i Paradise Papers - la nuova inchiesta dei giornalisti dell'International consortium of investigative journalists (Icij)- dimostrano che i paradisi fiscali sono più vivi che mai. Ma soprattutto ci dicono che i centri finanziari offshore non rappresentano un'anomalia del sistema finanziario globalizzato ma ne sono una parte integrante.

Nella rete dell'Icij sono caduti 13,4 milioni di file riservati sottratti un anno fa a due società di consulenza - la Appleby, con base alle Bermuda, e la Asiaciti di Singapore - e a 19 registri di società finora inaccessibili di altrettanti paradisi fiscali. I documenti della sola Appleby spaziano dal 1950 al 2016 e coinvolgono 25mila entità di 180 paesi. La law firm delle Bermuda è una società blasonata, molto nota negli ambienti finanziari e molto attenta alla sua reputazione. Ha sponsorizzato l'edizione 2017 dell'America's Cup e annovera tra i suoi clienti le maggiori banche d'affari e più importanti istituti di credito di tutto il mondo e numerose società dell'Ftse 100 e della classifica Fortune 500.

Non stupisce, dunque, trovare tra le personalità coinvolte nei Paradise Papers anche la regina Elisabetta II, Rania di Giordania, star internazionali come Bono e Madonna, ex primi ministri e uomini politici di decine di paesi, finanzieri come George Soros.

Scandalo «Paradise Papers»: cosa è successo, cosa può succedere

Secondo i calcoli di Zucman la ricchezza ammassata nei paradisi fiscali è concentrata nelle mani di pochi individui. L'80% dei 7.800 miliardi di dollari che l'economista ha calcolato siano presenti nei centri offshore appartiene allo 0,1% dei ricchi del mondo. E il 50% di quei soldi è nelle mani di un gruppo ancora più ristretto che rappresenta lo 0,01% della popolazione mondiale: i super ricchi.

Questi dati sono contenuti in uno studio che Zucman ha realizzato lo scorso settembre insieme ad Annette Alstadsaeter, della Norwegian University of Life Sciences, e a Niels Johannesen del'University of Copenhagen, dal titolo “Chi possiede le ricchezze nei paradisi fiscali?”. Secondo gli studiosi la maggior parte dei soldi presenti nei paradisi fiscali arriva da paesi autocratici come Arabia Saudita e Russia, paesi con una storia recente di governi autocratici come Grecia e Argentina e da vecchie democrazie come Francia e Gran Bretagna. Lo stock più basso di ricchezze proviene invece da paesi ad alta tassazione e dal welfare sviluppato come Norvegia e Danimarca.

Il paradiso fiscale che accoglie il maggior numero di ricchezze è la Svizzera, dove nel 2001 si concentrava il 40% di tutti i fondi offshore, saliti al 45-50% del totale tra il 2006 e il 2007 prima di assottigliarsi al 30% negli anni più recenti.

I Paradise Papers sono l'«eredità di un passato che sta scomparendo», ha commentato il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurrìa, a poche ore dalla diffusione dei primi documenti hackerati alla Appleby alla Asiaciti. «Questo fenomeno non si può più ripetere grazie al lavoro congiunto che voi, i vostri governi e l'Ocse hanno svolto negli ultimi anni», ha aggiunto parlando agli imprenditori britannici riuniti a Londra.

Il lavoro, è vero, è stato fatto. Ed è vero che lo scambio automatico di informazioni tra paesi è entrato in vigore e farà vedere presto i suoi primi effetti. Ma è anche vero che la “lista nera” dell'Ocse (quella che comprende gli stati non collaborativi dal punto di vista fiscale) è stata progressivamente svuotata fino a lasciarvi un unico piccolo paese: Trinidad e Tobago. L'unico a sopportare l'onta di essere considerato un paradiso del fisco.

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