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Apple spunta nei Paradise Papers

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L’inchiesta sui «Tax Havens»

Apple spunta nei Paradise Papers

(Afp)
(Afp)

Dall’Irlanda a Jersey. Le email segrete dei Paradise Papers rivelano che Apple avrebbe creato una nuova struttura nell’isola del Canale della Manica per continuare a ridurre il carico fiscale dopo che l’Irlanda ha interrotto dal 2014 la possibilità di utilizzare il cosiddetto “double Irish”, l’architettura societaria che - secondo la Commissione Ue - ha consentito ad Apple di versare una percentuale di imposte pari allo 0,005%.
La nuova struttura emerge dalle carte che i giornali aderenti all’International consortium of investigative journalists (Icij) hanno cominciato a pubblicare dalla serata di domenica. I documenti provengono dagli archivi informatici di due società di consulenza che hanno sede nei paradisi fiscali: la Appleby e la Asiaciti di Singapore.

Nel 2013 l’Unione europea aveva avviato un’indagine sugli accordi fiscali tra la Apple e l’Irlanda, conclusa nel 2016 con la richiesta alla multinazionale Usa di restituire a Dublino 13 miliardi di euro. Nel frattempo, però, Apple non è rimasta ferma. Nel marzo 2014 la società ha chiesto ad Appleby quali potessero essere le giurisdizioni offshore più vantaggiose tra le Isole vergini britanniche, Bermuda, isole Cayman, Mauritius, Isola di Man, Jersey e Guernsey per assicurare un’esenzione fiscale. La scelta è caduta su Jersey, una dipendenza della Corona britannica dove la tassazione per le società estere è inesistente.
I documenti in possesso dei giornalisti dell’Icij mostrano che le due società irlandesi della multinazionale, la Apple Operations International (che si ritiene controlli la gran parte dei 252 miliardi di dollari di utili che stazionano fuori dagli Stati Uniti) e la Apple Sales International, sono state gestite dalla sede della Appleby a Jersey dall’inizio del 2015 fino al 2016. Lo spostamento a Jersey delle due società avrebbe consentito ad Apple di continuare ad abbattere l’imposizione fiscale.

Una blacklist europea
E intanto, mentre il velo sui documenti prelevati alla Appleby si solleva, i ministri delle Finanze dell’Unione europea hanno aggiunto nell’agenda dell’Ecofin di oggi il tema dell’introduzione di una blacklist europea dei paradisi fiscali, argomento controverso per le perplessità di alcuni paesi membri come Lussemburgo, Malta e Irlanda. L’obiettivo della Ue è di arrivare a una definizione entro la fine dell’anno.

Sul fronte politico ieri in Gran Bretagna il leader dei laburisti Jeremy Corbyn ha chiesto l’avvio di un’inchiesta sui Paradise Papers che non escluda le operazioni dei fondi della regina Elisabetta II. Ma al di là del coinvolgimento di alcuni politici tra le due sponde dell’Atlantico, come il segretario al Commercio Wilbur Ross negli Stati Uniti, e Lord Ashcroft (tra i grandi finanziatori dei Tories) in Gran Bretagna, le nuove rivelazioni dimostrano come i paradisi fiscali non siano un’anomalia ma una parte integrante del sistema finanziario globalizzato. È proprio nei centri offshore, infatti, che transita una buona parte degli utili delle multinazionali.

Nei paradisi fiscali il 45% dei profitti
Secondo i calcoli dell’economista francese Gabriel Zucman, professore all’Università di Berkeley, le grandi società trasferiscono artificialmente nei paradisi fiscali il 45% dei loro profitti. Nel 2015 questa cifra ha raggiunto i 600 miliardi di dollari. Il 73% delle società della classifica Fortune 500, inoltre, possiede filiali nei centri offshore.

È difficile calcolare quanti soldi siano stipati nelle giurisdizioni segrete. Secondo Zucman vi sono ammassati 7,8 trilioni di dollari, cioé il 10% del Pil mondiale. Ma i “tax havens” sono un buco nero e stime ufficiali non ne esistono. Così, il Boston Consulting Group calcola che le ricchezze investite nei centri offshore ammontino a 10 trilioni di dollari mentre l’ex consulente di McKinsey, James Henry, alza la stima a 32 trilioni di dollari, pari a due volte il Pil degli Stati Uniti. Si parla sempre e solo di ricchezze finanziarie. Ville, yacht, aerei, gioielli e opere d’arte sono esclusi dal calcolo.
Secondo i calcoli di Zucman la ricchezza custodita nei paradisi fiscali è concentrata nelle mani di pochi individui. L’80% dei 7.800 miliardi di dollari che l’economista ha calcolato siano presenti nei centri offshore appartiene allo 0,1% della popolazione mondiale: i super ricchi.
I Paradise Papers dimostrano che i paradisi fiscali sono più vivi che mai e che non muovono soltanto denaro di dubbia provenienza o frutto di evasione fiscale. La Appleby, per esempio, è una società blasonata, molto nota negli ambienti finanziari e altrettanto attenta alla sua reputazione. Ha sponsorizzato l’edizione 2017 dell’America’s Cup e annovera tra i suoi clienti le maggiori banche d’affari e più importanti istituti di credito di tutto il mondo e numerose società dell'Ftse 100 e della classifica Fortune 500. Non ha nulla a che vedere con la panamense Mossack Fonseca all’origine dei Panama Papers.
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