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Così Trump e Putin si «spartiscono» la Siria lasciando i confini…

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scacchiere internazionale

Così Trump e Putin si «spartiscono» la Siria lasciando i confini invariati

«Con Trump abbiamo un dialogo normale, lui è a suo agio a conversare come me, peccato che non siamo ancora riusciti a esaminare l'intero spettro delle nostre relazioni», ha detto Putin durante il summit vietnamita dell’Apec. In realtà i due, pur senza un vertice formale, hanno fatto di più di quanto ci si potesse aspettare. Stati Uniti e Russia, che in Siria coabitano in una sorta di “condominio militare”, hanno deciso a Da Nang, ben lontano dal Medio Oriente, la loro Sykes-Picot, l’accordo sulla spartizione in zone di influenza raggiunto 101 anni fa dalle potenze coloniali di Gran Bretagna e Francia.

In sintesi gli Usa riconoscono la vittoria della Russia. Trump e Putin si sono pronunciati per la sua integrità territoriale dopo la sconfitta del Califfato che voleva esattamente il contrario: cambiare i confini e abbattere insieme al fronte sunnita - Turchia e monarchie del Golfo (con l'approvazione americana) - il regime alauita di Bashar Assad, l’unica minoranza rimasta al potere in Medio Oriente sostenuta da Iran e Hezbollah.

La spartizione è nei fatti, anche se precaria perché tutto viene rinviato ai negoziati Onu di Ginevra, diventati una sorta di appendice di quelli russi di Astana sponsorizzati da Turchia e Iran.

La dichiarazione di Da Nang è un messaggio che Mosca e Washington recapitano ai rispettivi alleati nel pieno della crisi tra Arabia Saudita e Libano, tinta di giallo per la sorte del premier dimissionario Saad Hariri, ospite-ostaggio di Riad dove il principe Mohammed bin Salman regola i conti con i concorrenti al trono.

Con la guerra in Siria e l'intervento della Russia nel 2015 a fianco di Assad, il fronte sunnita è stato sonoramente sconfitto. Soprattutto i sauditi sono infuriati. La Turchia, Paese Nato che si è messa d'accordo con Mosca e Teheran, resta con le sue truppe nella Siria del Nord, Israele continua a occupare dal 1967 le alture del Golan.

Turchia nel Nord della Siria, Israele nel Sud: soltanto ai sauditi non è stata lasciata una fetta della torta siriana e ora hanno creato la crisi libanese, spingendo alle dimissioni il premier Saad Hariri, per dimostrare che anche loro contano nel grande gioco della spartizione mediorientale.

Ma la responsabilità della frustrazione di Riad è proprio negli errori clamorosi di valutazione compiuti dall'Arabia Saudita che ha sostenuto l'opposizione jihadista in Siria e si è impantanata in una guerra in Yemen, nel cortile di casa, contro gli Houthi alleati di Teheran. Sono 37 anni, dalla guerra Iran-Iraq del 1980, che le monarchie del Golfo, con gli Usa, tentano senza successo un cambio di regime a Teheran.

Trump, per accontentare i suoi maggiori acquirenti arabi di armi e gli israeliani, vuole uscire dall'accordo sul nucleare del 2015 e imporre nuove sanzioni a Teheran ma non fare probabilmente una nuova guerra. Questo è il senso dell'ammonimento lanciato dalla Casa Bianca a rispettare la sovranità del Libano e diretto sia alle milizie sciite Hezbollah, alleate di Teheran, che alle «potenze straniere».

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman adesso cerca un fronte esterno in Libano e contro l'Iran dove sfogare le tensioni interne e coprire i fallimenti in Siria e Yemen. Dopo Da Nang Stati Uniti e Russia sembrano d'accordo (il condizionale è d'obbligo) ad attuare una sorta di «doppio contenimento» dei loro alleati regionali: dal loro impegno passano le chance di un negoziato o gli scenari per una nuova guerra devastante.

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