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Siria

La resa dei conti tra Ankara e curdi che mette in difficoltà gli Stati Uniti

Le proteste dei militanti curdi dell’Ypg (Unità di protezione del popolo). AFP PHOTO / DELIL SOULEIMAN
Le proteste dei militanti curdi dell’Ypg (Unità di protezione del popolo). AFP PHOTO / DELIL SOULEIMAN

Carri armati, bombardamenti aerei, colpi di artiglieria pesante, truppe di terra. Il nome scelto per la nuova operazione militare turca in territorio siriano – Ramo d’ulivo - non appare il più appropriato. Il contrario. Usando l’immagine di un simbolo di pace il Governo turco rischia di aprire un nuovo e pericoloso fronte in Siria nel periodo del “dopo Isis”.

È dunque arrivata la resa dei conti tra Turchia e curdi siriani, le cui unità di protezione popolare, le Ypg, sono accusate da Ankara di avere legami diretti con gli estremisti curdi del Pkk, da tempo nella lista delle organizzazioni terroristiche non solo di Ankara ma anche di altri Paesi.
L’annuncio è stato dato sabato dal presidente turco, Recep Tayyp Erdogan: «L’operazione Afrin è di fatto iniziata sul terreno, sarà seguita da Manbij», aggiungendo «più tardi, ripuliremo il nostro Paese fino alla frontiera irachena da questa barriera di terrore che tenta di assediarci».

Un nuovo fronte in Siria
L’obiettivo di Ankara è liberare dai curdi il distretto nordoccidentale di Afrin e creare una zona di sicurezza profonda circa 30 chilometri all’interno del territorio siriano. Ad aggravare lo scenario è l’entrata in campo a fianco dell’esercito turco dei ribelli – si parla di ben 25mila combattenti - dell’esercito siriano libero (Esl), la prima vera forza militare dell’opposizione siriana, sostenuta dalla Turchia, che si era opposta al regime di Damasco a fine 2011 ma che aveva perso forza dopo l’entrata in campo di gruppi armati salafiti sostenuti da alcune monarchie del Golfo.

Sebbene avessero in comune la guerra contro Damasco, le relazioni tra Ypg e Esl sono state sin dall’inizio difficili e complesse. Se in alcune occasioni si erano già precedentemente scontrate, è anche vero che negli ultimi anni unità dell’Esercito siriano libero si sono coordinate con i curdi dello Ypg all’interno delle Syrian democratic Forces (Sdf), la grande coalizione sponsorizzata dagli Stati Uniti che ha contribuito in maggior misura alla riconquista di Raqqa e alla sconfitta dello Stato Islamico in Siria (ora disperso in piccole cellule nella Valle dell’Eufrate). E questo la dice lunga sulla complessità del conflitto siriano, dove le alleanze si forgiano e si disfano nel volgere di pochi mesi, e alleati che hanno combattuto insieme contro un nemico comune sono pronti a farsi la guerra una volta che il loro nemico è stato messo ai margini.

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L’operazione era nell’aria già da tempo. Perché il Governo turco da anni ripete come la creazione di un pseudo stato curdo ai suoi confini rappresenti una minaccia alla sua sicurezza nazionale. Capace di riaccendere l’irredentismo curdo in Turchia e spingere il Pkk a cercare di creare un territorio curdo a cavallo tra Turchia e Siria settentrionale. In questa prospettiva quello che la Turchia non accetterà mai è dunque un confine lungo mille chilometri interamente in mano alle Ypg. Già nell’estate del 2016, il governo turco aveva lanciato l’operazione “Scudo dell’Eufrate” proprio contro le milizie curde dello Ypg.
«Il nostro esercito ha iniziato a prendere il controllo di centri abitati sottratti ai terroristi», ha annunciato ieri il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu. «State assistendo alla fuga dei terroristi, ma noi li inseguiremo», ha rincarato la dose Erdogan.
L’Esercito libero siriano, sostenuto dalla Turchia, avanza da Est, mentre le truppe d’elite di Ankara, sono penetrate da Nord. I primi villaggi nella zona siriana di Afrin sarebbero stati strappati alle forze curde. Le forze curdo-siriane, che hanno assicurato di aver respinto ogni attacco e di non aver ceduto terreno, hanno subito risposto con il lancio di razzi: quattro hanno colpito la cittadina turca di Reyhanli, al confine con la Siria. Dall’altra parte del confine, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, si conterebbero già le prime vittime civili; 18 persone uccise in due giorni di operazioni militari turche. È possibile dunque che l’offensiva turca si estenda anche alla città di Mambij, per poi raggiungere Qamishli, sede dei comandi regionali americani.

Il dilemma per gli Stati Uniti
Per gli Stati Uniti, già alle prese con una serie di crisi internazionali su cui hanno aperto un solco diplomatico con gli alleati europei, arriva un nuovo rompicapo.
In sostanza devono cercare una difficile mediazione tra il secondo esercito della Nato –quello turco - e le milizie più fedeli e armate da loro stessi, che si sono rivelate decisive nelle operazioni militari che hanno portato alla sconfitta dello Stato islamico in Siria. A inizio mese proprio il Pentagono aveva reso noto di voler aiutare la coalizione delle Sdf, che aveva portato alla riconquista di Raqqa, l’ex capitale dello Stato islamico, creando nuove forze da dispiegare lungo il confine con la Turchia al fine di impedire la fuga dei foreign fighter verso l’Europa e altri Paesi. Ma la spina dorsale di questa coalizione è rappresentata proprio da un groppo etichettato da Ankara come terroristi; le milizie dello Ypg.

Non è poi irrilevante che i militari americani che affiancano le milizie curde in Siria siriano siano stati di recente portati da 500 a 2mila unità. Che ora rischiano di trovarsi faccia a faccia con i militari turchi.
Se la Francia ha invitato subito la Turchia a cessare le ostilità, la reazione di Washington è stata moderata, se non debole, con un non troppo convinto invito al Governo turco ad «esercitare moderazione e ad assicurarsi che le sue operazioni militari restino limitate per portata e durata e scrupolose nell'evitare vittime civili». «Chiediamo a tutte le parti di restare focalizzate sull'obiettivo centrale della sconfitta (dell'Isis, ndr), ha poi sottolineato la portavoce del Dipartimento di Stato. .

Nel tentativo di sbrogliare questa matassa e scongiurare, prima che sia troppo tardi, un nuovo conflitto dalle conseguenze imprevedibili, oggi si terrà una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

E il dilemma di Putin….
Il nuovo fronte siriano mette anche il Cremlino davanti ad un dilemma: dare il proprio sostegno, come finora aveva fatto, al suo alleato, il presidente siriano Bashar al-Assad (che ha parlato di brutale azine della Turchia, promettendo una reazione dura in caso di attacco turco sul proprio territorio), oppure cercare un accordo con Erdogan in chiave anti-Nato (e anti-Stati Uniti)?
Al momento una delegazione di militari turchi di alto livello si trova a Mosca per cercare un accordo.
La Russia ha evacuato i suoi militari, fino a qualche giorno fa presenti nelle zone delle nuove ostilità, spostandoli nella località di Tall Rifaat. Una mossa che è stata interpretata da alcuni osservatori come un sostanziale via libera da parte di Mosca alle operazioni militari di Ankara. Ma se il regime siriano dovesse abbattere un caccia turco, così come ha promesso nel caso violi il suo spazio aereo, la situazione per Mosca rischierebbe di complicarsi.
Per il Cremlino l'attuale crisi è comunque conseguenza diretta delle strategie americane in Siria. “La reazione estremamente negativa di Ankara è stata provocata dall'annuncio di Washington della creazione di “forze di frontiera” nelle aree confinanti con la Turchia e dalle altre iniziative americane contro la Siria come entità statale e a sostegno dei gruppi miliziani armati”, ha reso noto il Ministero russo della Difesa.
Secondo Mosca, “le forniture non controllate da parte del Pentagono di armi moderne alle forze filoamericane nel nord della Siria, compresi, stando ai dati disponibili, sistemi missilistici portatili terra-aria, hanno accelerato l'aumento delle tensioni nella regione e hanno portato le truppe turche a lanciare un'operazione speciale”.
Mosca, da sempre in linea con il regime siriano per mantenere l'integrità territoriale della Siria, ha accusato Washington di portare avanti “azioni irresponsabili” mirate a “separare le aree a maggioranza curda”.
Il destino della Siria, un Paese già distrutto da una guerra durata sette anni (che ha provocato oltre 300mila vittime), è ancora in mano a troppe potenze straniere. Con interessi sovente diametralmente opposti. Uno scenario che non prelude a nulla di buono.

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