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CONCORRENZA FISCALE

Unctad: la riforma Trump riporterà negli Usa fino a 2mila miliardi di dollari. Allarme della Bce

Il presidente Usa Donald Trump
Il presidente Usa Donald Trump

Tra abbattimento dell’imposta sui redditi d’impresa, detassazione degli investimenti e sconti sugli utili parcheggiati all’estero, la riforma fiscale varata a fine 2017 attirerà, a detta di proponenti e analisti, un flusso di capitali negli Stati Uniti. L’agenzia Onu per il commercio e lo sviluppo prova a dare una dimensione al fenomeno con un report pubblicato oggi, secondo la quale, la riforma Trump potrebbe portare al rimpatrio di 2mila miliardi di dollari. Sempre oggi, un’anticipazione del bollettino mensile della Bce, che esce domani, mette in guardia dal rischio di concorrenza fiscale che la riforma Trump può innescare.

Duemila mliardi
Una cifra enorme, quella stimata dall’Unctad, che «avrà un impatto rilevante» sui flussi degli investimenti diretti nel mondo, sottolinea l’agenzia. Il calcolo dell’Unctad, per ammissione stessa dei suoi tecnici, è per la verità piuttosto semplicistico. L’ultima riforma che conteneva incentivi fiscali per il rimpatrio dei capitali è del 2005. Quella volta, 300 miliardi di dollari tornarono a “casa”, su 486 miliardi detenuti all’estero da società statunitensi (anche allora l’operazione si tradusse in una frenata degli investimenti diretti esteri Usa). Oggi, i capitali all’estero sono stimati in oltre 3.200 miliardi di dollari (2mila “liquidi”). Vale a dire quasi sette volte i 486 miliardi del 2005. La stima che indica in 2mila miliardi i capitali richiamati negli Stati Uniti dalla riforma Trump equivale appunto a circa sette volte i 300 miliardi del 2005. Un massiccio rimpatrio, sostiene l’Unctad, potrebbe chiaramente ridurre lo stock di investimenti diretti Usa all’estero, dagli attuali 6.400 miliardi di dollari, fino a un minimo di 4.500 miliardi.

Ci sono, però, come avvisa lo stesso report Unctad, alcuni fattori che potrebbero ridimensionare il fenomeno. Tanto per cominciare, l’operazione 2005 era sostenuta da un incentivo fiscale che scattava solamente se le somme venivano effettivamente rimpatriate. Oggi non è così e le multinazionali potrebbero decidere di tenere comunque all’estero una più ampia fetta di capitali, soprattutto quelli investiti in asset non facilmente liquidabili.

Dal sistema fiscale «worldwide» a quello nazionale
Il motore che dovrebbe innescare il rimpatrio dei capitali, infatti, non è tanto l’abbattimento dell’aliquota sul reddito d’impresa dal 35 al 21%, quanto il passaggio dal sistema fiscale su base mondiale (worldwide - redditi tassati negli Usa indipendentemente da dove vengono realizzati, con crediti d’imposta sulle tasse pagate all’estero) a uno su base nazionale (tassazione dei redditi realizzati negli Usa). Il vecchio sistema worldwide rendeva i redditi generati all’estero tassabili solo una volta rimpatriati. Questo ha spinto le aziende Usa a lasciare all’estero una montagna di utili e ha fatto sì che una grossa fetta dello stock di Fdi Usa all’estero sia costituita appunto da questi utili.

Il cambio di metodo di tassazione fa ora venire meno la convenienza a non rimpatriare gli utili e si associa a un altro fattore fondamentale: il trattamento fiscale agevolato per le somme oggi parcheggiati all’estero, sui quali si applica un’aliquota del 15,5% per le somme liquide e dell’8% per gli altri asset (contro un’aliquota ordinaria del 21%).

Un altro aspetto che potrebbe, tuttavia, frenare i rimpatri ha a che fare con la struttura della riforma fiscale: tanto più sarà finanziata in deficit, come avvisa anche la Bce, tanto più genererà pressioni al rialzo sui tassi a lungo termine, e quindi sul costo del capitale, ridimensionando l’effetto incentivo determinato dalla detassazione degli investimenti.

L’allarme della Bce
Dopo aver sottolineato che le conseguenze della riforma Trump sono «altamente incerte e complesse», gli esperti della Bce sottolineano che aumenterà l’attrattività fiscale degli Usa a scapito di altri Paesi. Il documento pubblicato sul sito della Banca centrale cita uno studio dell’istituto tedesco di ricerca Zew, secondo il quale, la riforma genererà un aumento degli investimenti diretti negli Usa da parte di aziende europee e questo flusso sarà superiore all’aumento atteso degli investimenti diretti Usa in Europa.

Il documento sottolinea che la riforma incentiva il trasferimento «negli Stati Uniti della proprietà intellettuale» e rischia di intensificare la competizione fiscale a livello globale, portando a una «possibile erosione della base fiscale in alcuni paesi europei».

Il documento, infine, ricorda che alcuni aspetti «internazionali» della riforma potrebbero non essere «in linea con le regole della Wto e con i trattati sulla doppia tassazione».

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