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Cos’è la guerra commerciale di Trump e chi la può vincere

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Cos’è la guerra commerciale di Trump e chi la può vincere

Donald Trump
Donald Trump

Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea ed economisti suonano da tempo l’allarme: le minacce del presidente statunitense Donald Trump sul fronte commerciale possono innescare una spirale di ritorsioni e rappresaglie senza ritorno, a scapito della crescita globale. Ora la Casa Bianca comincia a passare dalle parole ai fatti.

Che cos’è una guerra commerciale?

La definizione da dizionario è «conflitto nel quale un Paese impone dazi e restrizioni commerciali a un altro Paese per danneggiarne l’economia». Nel manuale di economia internazionale Krugman-Obstfeld -Melitz, la guerra commerciale è quella che si scatena quando i Paesi scelgono tutti politiche protezionistiche, cercando di difendere esclusivamente il proprio interesse e finendo per peggiorare la condizione di tutti. Barriere alle importazioni esistono da sempre, e sempre esisteranno. L’escalation avviata dagli Stati Uniti nei confronti della Cina e dell’Europa è tale da rischiare di innescare una spirale di ritorsioni che costringono gli attori in gioco a misure sempre più drastiche.

Quali sono i pericoli di una guerra commerciale?

L’esempio più spesso citato di guerra commerciale è quella innescata dagli Stati Uniti con lo Smoot-Hawley Act, approvato dal Congresso nel 1930, all’indomani del crollo di Wall Street (1929). Nonostante il parere contrario di 1.028 economisti, la legge alzò i dazi medi Usa dal 38 al 45%, con l’obiettivo di proteggere gli agricoltori americani colpiti dalla crisi economica. I dazi furono estesi a quasi mille categorie di beni e provocarono un crollo della domanda, aggravando la Grande Depressione già in atto. Anche perché 25 Paesi reagirono con rappresaglie a colpi di dazi e svalutazioni. L’interscambio Usa crollò del 60%. La crisi economica alimentò l’ascesa dei movimenti nazionalisti e populisti in Europa e fu una delle cause principali della Seconda guerra mondiale. Ma il protezionsimo, nell’Ottocento legato ai movimenti che portarono alla formazione degli Stati nazione, fu una delle cause anche della Prima guerra mondiale: una moderna teoria protezionista venne lanciata dal tedesco Friedrich List, nel saggio «Il sistema nazionale di economia politica» (1841), che riprende le idee di Johann Gottlieb Fichte (Lo stato commerciale chiuso- 1800) e sostiene la necessità di barriere doganali per lo sviluppo delle industrie nazionali, dove non esistono. Il protezionismo trovò forte applicazione negli ultimi decenni dell’Ottocento nella Germania di Bismarck (contribuì alla formazione dello Zollverein), seguita dall’Italia di Depretis e Crispi. La reazione degli altri Paesi all’epoca avanzati scatenò guerre commerciali (come la guerra delle tariffe agricole tra Italia e Francia tra il 1888 e il 1892).

Secondo le simulazioni dell’Fmi, un aumento del 10% dei dazi Usa ridurrebbe dell’1% il Pil americano nel lungo termine e dello 0,3% quello del resto del mondo. Non ci sarebbe trasferimento di produzione da un Paese all’altro: tutti perdono.

Gli Stati Uniti possono vincere una guerra commerciale?
Il presidente Donald Trump ne è convinto: «Le guerre commerciali sono facili da vincere», come ha più volte affermato. La storia però dice che nessuno vince una guerra commerciale. Di quella del 1930 si è già detto. Quando il presidente George W. Bush alzò i dazi sull’acciaio nel 2002, il Pil Usa scese di 30,4 milioni di dollari, in base alla International Trade Commission americana. Circa 200mila posti di lavoro andarono persi, 13mila proprio nell’acciaio, secondo alcune stime. Secondo il liberista Peterson Institute for International Economics, ogni posto di lavoro salvato dai dazi di Bush costò circa 400mila dollari. La Wto decise che quelle tariffe erano illecite.

Che cosa ha fatto Trump finora?

A gennaio ha imposto dazi sull’import di pannelli solari (30%) e lavatrici (dal 20 al 50%) . La settimana scorsa ha annunciato tariffe del 25% su 60 miliardi di dollari di import di prodotti cinesi, come ritorsione per «decenni di scippi della proprietà intellettuale» e delle tecnologie statunitensi, attraverso pratiche che obbligano le aziende Usa a condividere i propri segreti industriali con i partner locali, in cambio dell’accesso al mercato di quel Paese. I settori presi di mira (anche se manca ancora la lista dei circa 1.300 prodotti colpiti) sono quelli dell’innovazione e della tecnologia avanzata, nei quali la Cina punta a diventare una superpotenza mondiale entro il 2025. Gli Usa si preparano anche a bloccare le acquisizioni di società Usa da parte di gruppi cinesi.

Trump ha poi imposto dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio, entrati in vigore il 23 marzo. Ha concesso esenzioni temporanee a Canada, Messico, Europa, Corea del Sud, Brasile, Australia e Argentina. Perché diventino definitive, tutti questi Paesi dovranno cedere qualcosa a Washington. Le esenzioni scadono il 1° maggio.

Che cosa ha ottenuto finora?

In cambio dell’esenzione definitiva dai dazi su acciaio e alluminio, la Corea del Sud, dopo un negoziato di poche settimane, ha accolto la richiesta degli Usa di rivedere il trattato di libero scambio siglato sei anni fa e ha accettato un tetto di 2,7 milioni di tonnellate all’anno sulla quantità di prodotti siderurgici che potrà esportare negli Stati Uniti. Il tetto equivale al 70% delle vendite medie di acciaio coreano negli Usa nel periodo 2015-2017. Gli Usa potranno confermare fino al 2041 i dazi che già oggi applicano su furgoncini e pick-up. Avrebbero dovuto eliminarli nel 2021. Il Governo permetterà alle case statunitensi la vendita in Corea di un massimo di 50mila vetture che non rispettano i propri parametri di sicurezza. Oggi il tetto è di 25mila. Seul ha infine accettato di siglare un accordo parallelo in cui si impegna a non svalutare la propria moneta per spingere le esportazioni.

Quali sono le ragioni di Trump?
Il presidente Usa vuole abbattere il deficit commerciale americano, 810 miliardi di dollari nel solo scambio di beni, 568 considerando anche i servizi (il 2,9% del Pil). Solo la Cina vanta un surplus di 375 miliardi di dollari (solo beni, ma si scende a 150 se si tiene conto delle catene globali del valore). Trump chiede che scenda di 100 miliardi. La Ue ha un surplus di 150 miliardi di dollari.

Quella sul deficit è la promessa elettorale fatta nella campagna per le presidenziali, vinta per un soffio proprio in Stati in cui sopravvive l’industria siderurgica a stelle e strisce e che saranno fondamentali nelle elezioni per il rinnovo parziale del Parlamento a novembre.

Come hanno reagito gli altri Paesi ai dazi di Trump?

Una serie di economie, tra cui la Ue, hanno chiesto compensazioni per i dazi su pannelli solari e lavatrici, primo passo per un ricorso alla Wto. L’Unione Europea sta cercando di convincere la Casa Bianca a rendere definitive le esenzioni sui dazi su acciaio e alluminio, ma ha già indicato una lista di prodotti da 6,4 miliardi che è pronta a colpire come ritorsione. Trump ha però già detto che se questo avverrà, imporrà dazi del 25% sulle auto europee. Bruxelles ha anche lanciato un’indagine sull’aumento del proprio import di acciaio e alluminio per effetto dei dazi imposti da Trump a Paesi come Russia, Cina, Turchia, Giappone o Vietnam, che dovranno cercare altri mercati di sbocco.

La Cina si è limitata a indicare contromisure su 3 miliardi di dollari di prodotti made in Usa.

Qual è il ruolo della Wto?

Cina, Europa e altri Paesi hanno annunciato e presentato ricorsi all’organismo di soluzione delle dispute dell’Organizzazione mondiale del commercio, nato nel 1995. Anche gli Usa si muovono su questo fronte e hanno chiesto consultazioni con la Cina sulla questione del furto di tecnologie. Il tribunale della Wto può autorizzare un Paese membro a misure di compensazione (non punitive) se ritiene che questo sia stato danneggiato da un altro Stato, in violazione delle regole sul commercio internazionale. I procedimenti della Wto sono però lunghi e l’organo d’appello rischia la paralisi per il boicottaggio degli Usa, che bloccano il rinnovo dei suoi giudici.

Come funziona un dazio?

Un dazio è una forma di accisa applicata a un bene importato: il suo prezzo sale di un importo pari all’aliquota stabilita. L’effetto è di alzare il prezzo di quel bene, aumentando il ricavo dei produttori interni e la spesa sostenuta dai consumatori (intermedi o finali). Semplificando: il Paese A importa matite e il prezzo delle matite sul mercato mondiale, e nel Paese A, è 100. Se il Paese A impone un dazio del 25%, al suo interno le matite costeranno 125. Questo, in teoria, spinge i produttori locali a offrire una quantità maggiore e i consumatori a domandarne meno, riducendo le importazioni. La teoria economica sostiene che il vantaggio accordato ai produttori (e allo Stato, tramite il maggior gettito) da un dazio è inferiore allo svantaggio economico subito dalla generalità dei consumatori e quindi rappresenta un danno per l’economia nel suo complesso. Gli economisti tendono a riconoscere l’utilità dei dazi solo a tutela di industrie nascenti, che sono cioè nelle prime fasi del loro sviluppo. A queste considerazioni si contrappongono gli argomenti che individuano nei dazi una forma di tutela dei produttori locali da pratiche di dumping (di prezzo, sociale e ambientale) e dalle svalutazioni competitive. La via accettata dai 164 membri della Wto per affrontare queste problematiche è però quella del ricorso al suo organo di risoluzione delle dispute.

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