Messa la pistola dei dazi sul tavolo, Washington invita avversari come la Cina e alleati come l’Europa a trattare per raggiungere accordi «equi» sul commercio internazionale. Fuori dalla cornice della Wto, nell’ambito di negoziati “faccia a faccia”, condotti sul filo di un ricatto che per ora non incontra risposte altrettanto muscolari.
Il fronte cinese
Incassata la salva di dazi del 25% su 50-60 miliardi di dollari di esportazioni e la minaccia di restrizioni sugli investimenti negli Usa, Pechino per ora si muove con prudenza, indicando ritorsioni su appena 3 miliardi di dollari di prodotti Usa. L’ipotesi a cui si sta lavorando è quella di accettare concessioni sufficienti a permettere al presidente Usa, Donald Trump, di cantare vittoria in vista delle elezioni parlamentari di novembre. Tanto dovrebbe bastare, si spera a Pechino, a convincere Washington a fare marcia indietro e a disinnescare la spirale che punta dritta a una guerra commerciale.
La scorsa settimana, il Governo Usa ha inviato a quello cinese una lettera con una serie di richieste che comprendono la riduzione dei dazi sull’import di auto Usa, l’aumento dell’import cinese di semiconduttori americani e un maggior accesso al mercato finanziario cinese. Sui semiconduttori, la Cina non avrebbe difficoltà a reindirizzare i propri canali di fornitura a scapito di Corea del Sud e Taiwan. Sul mercato finanziario, già a novembre era stata annunciata una liberalizzazione che permetterà agli investitori esteri di acquisire fino al 51% delle società cinesi. Il varo, originariamente previsto in tre anni, potrebbe essere accelerato.
Domenica, il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, si è detto fiducioso della possibilità di trovare un accordo che permetta di ridurre il deficit Usa (375 miliardi di dollari) e starebbe preparando un viaggio a Pechino: «Non abbiamo paura di una guerra commerciale - ha detto - ma non è questo il nostro obiettivo». Il Governo Usa ha tempo fino al 6 aprile per pubblicare la lista dei circa 1.300 prodotti cinesi colpiti dai dazi, ma potrebbe farlo già questa settimana. Poi ci saranno 30 giorni di consultazioni con il mondo delle imprese americane e infine i dazi entreranno in vigore. La finestra per le trattative non è amplissima.
Ai negoziati sotto-traccia, Pechino accompagna iniziative ufficiali e chiama i Paesi membri della Wto a fare fronte comune contro il tentativo degli Usa di «distruggerla»: «La Wto è sotto assedio, e noi tutti dobbiamo unirci per difenderla», avverte Zhang Xiangchen, inviato di Pechino nel quartier generale di Ginevra dell’organizzazione mondiale per il commercio.
La trattativa europea
Bruxelles insiste, l’esenzione strappata la settimana scorsa dai dazi su acciaio (25%) e alluminio (10%) deve diventare permanente. Per assicurare questo risultato prima che il periodo di grazia scada (il 1° maggio), è in programma una fitta rete di incontri e contatti. Il consigliere della Casa Bianca per il commercio, Peter Navarro, ha affermato che per rendere definitive le esenzioni , i Paesi che vendono prodotti siderurgici negli Usa dovranno accettare tetti annuali all’export.
Intanto, la Commissione ha avviato un’indagine per appurare se i dazi possano causare un aumento dell’export di prodotti siderurgici in Europa. Nonostante l’esenzione, il Vecchio continente può ancora essere penalizzato dal reindirizzamento della produzione degli altri Paesi colpiti dai dazi, come Giappone, Russia, India o Vietnam.
L’indagine serve ad attivare la procedure della Wto e potrebbe durare fino a nove mesi. Tuttavia «le informazioni disponibili al momento rivelano che l’import di alcuni prodotti in acciaio sono fortemente aumentate di recente», si legge in un documento della Commissione. Di conseguenza, continua la nota, potrebbe essere necessario adottare «misure di salvaguardia» a tutela della siderurgia europea.
Nel 2017 gli Stati Uniti, con 631 miliardi di euro pari al 16,9% del totale degli scambi, e la Cina, con 573 miliardi di euro pari al 15,3%, si sono confermati i due maggiori partner nel commercio dei beni della Ue.
La Corea cede
Colpita dai dazi sulle lavatrici e poi posta sotto la minaccia di tariffe sulle esportazioni di acciaio e alluminio, Seul apre alle richieste dell’alleato americano, dal quale dipende per difendersi da altre e più drammatiche minacce, quelle nucleari di Pyongyang. Stati Uniti e Corea del Sud hanno annunciato di aver raggiunto un accordo di principio (ma non ancora definitivo) per riformare il trattato di libero scambio siglato sei anni fa (noto con l’acronimo Korus). Era quanto l’amministrazione Trump chiedeva dal giorno d’insediamento. Per il presidente, il Korus era un accordo «ammazza-occupazione», proprio come il Nafta, il trattato che Canada e Messico sono chiamate a rivedere sotto il medesimo ricatto imposto a Seul. Ottenute alcune concessioni, Washington ha confermato che escluderà la Corea del Sud dai dazi su acciaio e alluminio.
Seul ha accettato un tetto di 2,7 milioni di tonnellate all’anno sulla quantità di prodotti siderurgici che potrà esportare negli Stati Uniti. Il tetto equivale al 70% delle vendite medie di acciaio coreano negli Usa nel periodo 2015-2017. Il Governo coreano fa buon viso a cattiva sorte e sottolinea che l’accordo non farà troppo male all’industria del Paese, dato che l’acciaio venduto negli Usa rappresenta solo l’11% di quello esportato nel mondo.
Gli Stati Uniti, inoltre, potranno confermare fino al 2041 i dazi che già oggi applicano su furgoncini e pick-up. Avrebbero dovuto eliminarli nel 2021. Attualmente, nessun gruppo coreano esporta questi veicoli negli Usa. La Corea del Sud cancellerà alcuni degli standard richiesti sulla sicurezza e sull’ambiente per facilitare l’export di auto Usa sul proprio mercato. Il Governo permetterà alle case statunitensi la vendita in Corea di un massimo di 50mila vetture che non rispettano i propri parametri di sicurezza. Oggi il tetto è di 25mila, ma nessun costruttore Usa ne vende più di 10mila l’anno.
Seul ha invece tenuto duro sull’agricoltura. Tra i dettagli ancora da definire, c’è la rivisitazione del meccanismo di soluzione delle dispute tra investitori e Stati e l’estensione alle multinazionali Usa degli incentivi per lo sviluppo di nuovi medicinali.
Lo scorso anno, la Corea del Sud ha registrato un surplus commerciale di 22 miliardi di dollari (contro i 31 dell’Italia e i 150 della Ue), per il 70% generato nell’interscambio di automobili.
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