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La spirale dei dazi rischia di avvolgere tutti

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ANALISI

La spirale dei dazi rischia di avvolgere tutti

I falchi alla Casa Bianca: da sinistra, il presidente Donald Trump, il vicepresidente Mike Pence, il segretario al Commercio Wilbur Ross e il rappresentante al Commercio Robert Lighthizer
I falchi alla Casa Bianca: da sinistra, il presidente Donald Trump, il vicepresidente Mike Pence, il segretario al Commercio Wilbur Ross e il rappresentante al Commercio Robert Lighthizer

In tanti ci avevano provato: il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale per il Commercio, la Banca Mondiale, l’Ocse, la Banca centrale europea, la Ue, il cancelliere tedesco Angela Merkel e una schiera infinita di leader ed economisti mondiali. Un coro assordante rivolto al presidente statunitense Donald Trump e a chi (sempre meno, per la verità) nella sua amministrazione avesse voglia di prestare orecchio alle lezioni dell’economia e della storia: guai a innescare guerre commerciali. Non sono stati ascoltati e passo dopo passo le prime due economie mondiali stanno scivolando nella temuta spirale di ritorsioni che difficilmente potrà lasciare indenne gli altri attori mondiali, a cominciare dall’Europa.

La prima salva è arrivata con i dazi su lavatrici e pannelli solari, sparata da Trump proprio nel giorno d’apertura del simposio d’eccellenza del multilateralismo e del liberismo: il World Economic Forum di Davos, a gennaio. Il presidente sovranista aveva preparato così il suo raid nel resort alpino, salvo poi provare ad ammaliare la platea dei globalisti con un discorso dai toni soft. In molti hanno voluto credergli e convincersi che la retorica dell’America First fosse solo tattica da mercante. Magari spregiudicata, ma solo tattica. A riportare tutti alla realtà sono arrivati i dazi su acciaio e alluminio, sfoderati sulla base della tutela della sicurezza nazionale e imposti anche agli alleati degli Usa nella Nato. Una carta pericolosissima da calare sul tavolo del commercio mondiale, che mette la Wto nell’impossibile situazione di stabilire se un Governo, nella specie quello degli Stati Uniti, sappia o no cosa è la propria sicurezza nazionale. Un precedente che potrebbe spingere altri Paesi a invocare la stessa argomentazione per chiudere interi settori economici, a partire dall’agricoltura (cos’è più fondamentale per la sicurezza nazionale che non l’autonomia alimentare?).

L’ultima salva di dazi sparata da Trump dovrebbe far giustizia delle scorrettezze commerciali della Cina. Finisce per colpire anche i Suv assemblati in Cina da General Motors e venduti negli Usa. Spinge l’avversario a seguire la legge del taglione. I 50 miliardi di export Usa preso di mira da Pechino rappresentano però oltre un terzo di tutto l’export americano nel Paese (130 miliardi di dollari nel 2017). Viceversa, i 50 miliardi di prodotti cinesi colpiti da Washington sono solo il 10% del suo import bilaterale.

Tutti segnali ai quali Bruxelles non può non prestare preoccupata attenzione: il 1° maggio scade la sospensione dai dazi sui prodotti siderurgici accordata all’Europa da Trump, a patto che faccia concessioni, abbassando i cancelli al made in Usa e seguendo la Casa Bianca nell’assedio alla Cina. Trump ha in mente le nude e crude statistiche sullo scambio di beni e taglia fuori dalla suo mondo semplicistico il surplus Usa nei servizi e le catene globali del valore, al netto dei quali, il deficit Usa è molto più basso. Il numero che ossessiona Trump è il deficit da 375 miliardi nei confronti della Cina. Verso la Ue, il disavanzo è di 150 miliardi. La spirale rischia di avvolgere tutti.

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