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il sorpasso

Dalla crescita alle riforme: perché tra Spagna e Italia non c’è partita

Ha ancora senso fare confronti tra Spagna e Italia, come andava di gran moda una decina di anni fa, quando i giornali si divertivano a raccontare del “duello” tra Roma e Madrid e del possibile sorpasso? Probabilmente no, e non soltanto sul versante calcistico. I due Paesi mediterranei stanno ormai giocando in due zone diverse dell’eurocampionato: uno a metà classifica, l’altro in fondo.

Basta guardare l’evoluzione dello spread con il Bund tedesco dei nostri BTp e dei loro Bonos, con il sorpasso spagnolo avvenuto già nel lontano 2013. O il passo della crescita economica, con l’Italia doppiata due volte, o ancora il peso di un debito pubblico dove è vero che gli spagnoli nel periodo precrisi partivano da livelli bassi, ma è altrettanto vero che l’Italia partiva da livelli altissimi (e non per colpe altrui). Per questo non bisogna stupirsi oggi nel leggere che il Pil pro capite spagnolo a parità di potere d’acquisto ha superato quello italiano, e che la “forbice” tra i due Paesi è destinata ad allargarsi ancora.

Già prima della crisi la Spagna correva più forte rispetto all’Italia (tra il 2000 e il 2007 Madrid è cresciuta del 3,5% medio annuo contro l’1,2% di Roma), raccogliendo i frutti dell’era Aznar con le sue riforme economiche, liberalizzazioni e privatizzazioni. La grande crisi ha colpito con violenza entrambi, mettendo in ginocchio il settore immobiliare e bancario spagnolo, ma uno dei due Paesi ha saputo rinnovarsi, facendo scelte dolorose che l’hanno reso più competitivo, mentre l’altro ancora lì, in zona retrocessione, a giocarsela con la Grecia. Vediamo perché.

Le riforme. Qui non c'è proprio partita. Madrid ce l’ha messa tutta per cercare di risolvere il problema della bassa produttività spagnola (comune all’Italia) rispetto ai Paesi “core” dell’eurozona, come ha ben documentato a suo tempo una ricerca del Centro studi di Confindustria. Il settore produttivo iberico è infatti caratterizzato dalla coesistenza di numerose imprese di piccola dimensione con produttività modesta e poche imprese grandi molto efficienti, con la crisi finanziaria che ha peggiorato la situazione, rendendo poco funzionale il mercato del credito e creando nuovi ostacoli alle Pmi iberiche. Da tempo la Spagna ha varato due importanti riforme per risolvere questi problemi: la legge sulla concorrenza economica (2013) e la disciplina dei fallimenti (2014-2015), con effetti positivi nel lungo periodo.

L’occupazione. La riforma del mercato del lavoro spagnola è stata introdotta circa tre anni prima che in Italia (2012 invece che 2015) e, oltre a intervenire come ha fatto il “Jobs Act” su flessibilità in uscita e dualismo fra lavoratori con contratti di durata diversa, ha introdotto misure che hanno spostato la contrattazione collettiva dal livello settoriale e regionale a quello di impresa. In questo modo è stata favorita la flessibilità interna delle aziende, in termini sia di orari che di mansioni. L'effetto immediato è stato una moderazione significativa della dinamica salariale, consentendo all’occupazione di tornare a crescere, anche se il tasso di disoccupazione spagnolo resta molto alto (più di quello italiano).

Le banche. La Spagna è riuscita a ripartire rapidamente anche grazie alla tempestiva messa in sicurezza delle banche che, per via della bolla immobiliare e delle difficoltà delle Casse di risparmio iberiche, erano in condizioni nettamente peggiori di quelle italiane. A giugno 2012, nella fase più acuta della crisi del debito sovrano, Madrid aveva infatti chiesto l’assistenza finanziaria dell’Unione europea, per irrobustire il sistema bancario nel lungo periodo ripristinando così il suo accesso al mercato. Riforme e messa in sicurezza delle banche spiegano la formidabile crescita spagnola, che dal 2013 a oggi ha messo a segno un incremento medio annuale del Pil del 2,8%, circa il triplo dell’Italia.

La competitività. Nella classifica del Global Economic Competitiveness Report 2017/18, compilata ogni anno dal World Economic Forum, l’Italia è salita di una posizione al 43° posto, soprattutto grazie al miglioramento dell’efficienza del mercato dei beni e dell’istruzione e formazione superiori. Il problema è che nella gara globale restiamo indietro: il nostro Paese è meno competitivo non solo della Germania (al quinto posto), dei Paesi Bassi (quarto posto) e della Francia (22°), anche del Portogallo (al 42°, balzato in alto nell’ultimo anno di ben quattro posizioni) e ovviamente della Spagna (34° posto).

Ma allora dove battiamo Madrid? Nel sistema industriale diffuso, nel tasso di disoccupazione e nello stock di risparmio accumulato, che come arcinoto nel caso italiano è quasi il doppio del debito pubblico solo se consideriamo le attività finanziarie, e sale a quasi il quadruplo quando si considerano anche gli immobili. Non consola molto, se consideriamo che secondo il Fmi la Spagna nei prossimi dieci anni sarà più ricca dell’Italia del 7%, mentre dieci anni fa eravamo noi a battere Madrid del 10%. E il calcio non c’entra.

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