Fare grande la Francia, encore. Emmanuel Macron non può dirlo: Donald Trump, in un certo senso gli ha rubato lo slogan e gli ha dato una connotazione che al presidente francese probabilmente non piace. «Make our planet great again» è, piuttosto, la parafrasi adottata all’Eliseo, nella quale la Francia sembra scomparire, anche se in realtà in essa emerge la bandiera che Parigi ha adottato e donato al mondo moderno ormai da secoli: l’universalismo.
Macron - presidente colto in un paese che la cultura l’ama davvero - conosce bene questa vocazione francese, e la usa: ne ha parlato anche a Washington. Ha chiuso quindi con la diplomazia “di pancia” di Nicolas Sarkozy, o quella “normale” di François Hollande proclamando al mondo: «France is back».
La Francia però non può più ambire ad essere, da sola, una grande potenza. Può, piuttosto lasciare il segno, in molti ambiti: una forma di pouvoir doux, versione parigina dell’americano soft power; e forse qualcosa in più. L’insistenza del presidente, per esempio, nel voler fare del francese la prima lingua d’Africa e la terza del mondo non è solo un modo di lusingare il patriottismo degli elettori ma proprio la lenta costruzione di nuove vie di comunicazione.
Per un’agenda così ambiziosa la Francia evidentemente non basta e, in questo senso, il continuo riferimento all’Europa di Macron è funzionale alla sua visione. In questi giorni il presidente francese è a Washington, ma sarà seguito venerdì da Angela Merkel, a sottolineare che la Francia non agisce da sola e per sé sola.
La Cancelliera tedesca, in questa fase, appare in realtà un po’ appannata rispetto al passato e il suo sostegno potrebbe apparire insufficiente. Uno dei talenti, e delle fortune, di Macron è stato però proprio quello di riempire i vuoti della politica internazionale. Il vuoto creato da Trump ritirandosi dall’accordo di Parigi: quale miglior occasione per appropriarsi del tema climatico ed energetico? Più in generale gli Usa si stanno da tempo disimpegnando in modo selettivo e parziale dal Medio Oriente, dove Macron non nasconde i suoi obiettivi: Arabia Saudita e Qatar, Israele e Iran, senza dimenticare Siria e Turchia. Brexit presto renderà la Gran Bretagna, da membro autorevole del flessibile impero europeo, una media potenza relativamente isolata, mentre le difficoltà politiche della Merkel, alla fine della sua parabola politica, stanno - per il momento - ridimensionando il ruolo della Germania.
Il ruolo cercato da Macron è evidente nei rapporti con la Russia: la Francia, forte di una limitata dipendenza energetica da Mosca, si è potuto permettere di bombardare la Siria contro il parere di Vladimir Putin e di ricandidarsi subito come interlocutore privilegiato presso il Cremlino.
Ovviamente bisognerà aspettarsi, in questo scenario, una reazione dalla Russia, e forse dalla Germania che sta costruendo un’ampia zona di influenza nei paesi ex comunisti e deve fare comunque i conti con Mosca. È evidente però che al momento l’anello forte dell’Europa, in politica estera, è a Parigi. Solo il governo francese ha assunto con convinzione il compito di opporre l’universalismo europeo - che in Francia è nato - alle nuove “dottrine” internazionali: il neoisolazionismo degli Stati Uniti, il nuovo autoritarismo nazionalista di Putin, che inizia trovare qualche imitatore (Erdogan, Modi), e il socialismo imperiale di Xi Jinping che inizia a proiettare all’esterno la potenza cinese, per esempio con le Nuove vie della seta. La condizione della “reciprocità”, introdotta proprio nei rapporti con Pechino, segna la “dottrina Macron,” che disegna una Francia e un’Europa pronte ad “aprirsi” ma ponendo le proprie condizioni.
I rischi non mancano: quello di alimentare la diffidenza per una Francia iperattiva, o confondere, invece di coordinare, politica nazionale e orizzonte europeo. Non è detto infine che un approccio bonapartista, dall’alto verso il basso e un po’ paternalista, sia proprio quello che serve in un mondo in crisi di fiducia per la politica e le sue élites. Le alternative, per il momento, non sembrano però adeguate.
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