Cambiare la Francia. Cambiare l’Europa. È ambizioso, Emmanuel Macron. Si sente jupitérien - che in italiano non potremmo tradurre con “gioviale” - e cerca di costruire con cura la sua immagine di presidente-re, al pari di Charles de Gaulle e François Mitterrand.
L’importanza delle «grandi storie»
È fuor di dubbio che negli undici mesi di presidenza Macron stia facendo di tutto, e a ritmi forsennati, per mantenere le sue promesse e a costruire così il suo personaggio. A lui non piacerebbe un bilancio annuale: «Giudicatemi tra cinque-dieci anni», continua a dire; e già nel 2011, in polemica con il postmodernismo di Jean-François Lyotard, che aveva dichiarato la fine delle grandi narrazioni (les grand récits, o più correttamente i métarécits), come aveva argomentato in un saggio su Esprit - Les labyrinthes du politique. Que peut-on attendre pour 2012 et après? - la necessità di enunciare grandi storie (grandes histoires), che vadano al di là della quotidianità. Senza dimenticare - e Macron non lo fa mai - i dettagli delle politiche.
Mille vincoli per la Francia
Se però sono le stesse ambizioni presidenziali a rendere impossibile un bilancio, uno sguardo dall’alto delle sue iniziative è invece necessario: Macron ha aperto molte strade, non tutte concluse. Anche perché i vincoli che la sua politica - e la Francia - deve affrontare sono stretti. Le risorse, soprattutto, mancano. Il bilancio pubblico è stato per anni fuori linea: nel 2017 il deficit è però tornato sotto la soglia del 3%, e ora - complice un ritmo un po’ più rapido dell’economia - punta a una riduzione più rapida del previsto del disavanzo. Per ristrutturare il complesso delle spese pubbliche è stata però necessaria, tra l’altro, una riforma dei contributi “generali” dei lavoratori e dei pensionati, che sono aumentati, creando un diffuso malcontento. Entro fine anno il calo dei contributi aziendali di malattia e disoccupazione dovrebbe però più che compensare l’onere, aumentando il potere d’acquisto per almeno 20 milioni di persone. La riduzione delle imposte sugli immobili ha intanto creato un buco nelle entrate di moltissimi comuni, che il governo di Édouard Philippe deve ora coprire. «Senza nuova imposte», ha promesso.
Aziende zombie
Non sono solo i conti pubblici, però, a soffrire: le aziende francesi sono molto indebitate, e il numero di imprese zombie, che possono fallire da un momento all’altro, è relativamente elevato. Il Paese ha bisogno di capitali dall’estero e Macron, con la sua idea di far convergere gradualmente il sistema giuridico e fiscale francese verso quello tedesco vuole ridurre i vantaggi competitivi della Germania. Le imposte sui salari elevati, per esempio, sono già stati uniformati, mentre il presidente insiste molto, in sede Ue, sulla necessità di contrastare il dumping fiscale (e sociale).
La riforma del lavoro
È però la riforma del lavoro che, nelle intenzioni di Macron, dovrebbe rendere la Francia altrettanto competitiva della Germania. Condita da misure “correttive” - l’aumento delle sanzioni per le irregolarità, la prefigurazione di una mini-cogestione alla francese - la riforma segue la falsariga di altri interventi, con l’obiettivo di far meglio coincidere - nella loro dinamica, sempre più rapida - domanda e offerta. È presto per individuare dai dati sull’occupazione se c’è stata, come ci fu in Germania, una netta discontinuità tra il prima e il dopo (tenuto anche conto dell’accelerazione della crescita).
Tensioni in Francia
Sicuramente alla riforma manca un pezzo, in via di definizione, che punta a migliorare l’offerta: apprendistato e formazione continua. Gli annunciati interventi sull’istruzione hanno però messo in allarme gli studenti: molte università sono state occupate, proprio mentre i ferrovieri francesi lanciavano un efficacissimo sciopero a scacchiera. Il presidente ha voluto sfidare il simbolo stesso della vecchia Francia, l’irriformabile Sncf, molto indebitata, cercando di recuperare parte del consenso perduto. Rischia però di alterare l’identità della sua politica oggi considerata un po’ elitaria e più vicina alla destra di quanto lui stesso desidererebbe, proprio mentre la riforma delle norme sull’immigrazione crea malumori nel suo stesso movimento, La République en marche.
La diluizione del potere occidentale
È comunque in politica estera che Macron, da “grande” presidente francese, cerca di lasciare il segno: non può fare suo il motto di Donald Trump - Make America Great Again - ma la grandeur fa parte dell’identità politica francese. Il presidente ha scelto, per la sua campagna elettorale, di cavalcare i temi europei: in contrapposizione con Marine Le Pen, ma anche tenendo conto dell’enorme potere contrattuale che la Ue offre a ciascun Paese membro. La diluizione del potere occidentale - il parziale isolazionismo di Trump, Brexit, l’”invecchiamento” politico di Angela Merkel - fanno risaltare l’attivismo - non a buon mercato, anzi - di un Macron non certo riluttante. In campo europeo, le sue ambizioni si scontrano però con due ostacoli: la distanza tra le culture politiche di Francia e Germania e la diffidenza dei partner - a cui dato voce in Parlamento il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker - verso quella che Macron stesso ha un po’ disegnato come una diarchia Parigi-Berlino (a volte allargata a Roma).
La contraddizione latente
È il segno di una contraddizione latente: quella tra il ruolo di un presidente-re, che deve dar voce a una Francia che da sempre si vuole “sovrana”, e quello di levatrice della nuova Europa, che impone un profondo ripensamento dei poteri dei singoli Paesi. Il suo slogan - «la sovranità europea è complementare e non sostitutiva» di quella degli Stati - potrebbe non bastare.
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